Vittorio Gregotti, L'ultimo hutong. Skira 2009 Milano

 

Per inaugurare la sezione internazionale Arcdueworld della nostra rivista, che guarda la globalizzazione dalla parte della cultura italiana e occidentale riportiamo un giudizio di Vittorio Gregotti a conclusione del suo libro sulla Cina L’ultimo hutong (edito da Skira nel 2009) che verte sulla stato dell’architettura oggi, anche in rapporto alla Cina; e a partire da una esperienza di lunga lena vissuta in prima persona, come documentano i progetti, riportati nel libro in appendice, ed eseguiti nel corso di un ventennio per i cinesi ed in particolare quello, in corso di realizzazione, per la nuova città di Pujiang sul fiume Hungpu in un’area periurbana della città di Shangay.

Sottolineiamo, per la suo valore icastico, il passaggio che critica il rinnovato interesse per l’ “aura” in architettura come esaltazione autoreferenziale della libera creatività entro una pretesa onnipotenza della comunicazione senza contenuto e nel vuoto globale. Un interesse, opposto a quello degli anni trenta, manifeso non solo nei comportamenti delle società occidentali, ma altresì della società cinese, almeno di una parte.

La Redazione

 

Dice Gregotti:
Qualcuno scrive oggi, al contrario di quanto prevedeva Benjamin, che negli ultimi cinquant’anni la questione dell’”aura” in quanto comunicazione sarebbe tornata al centro delle ricerche delle pratiche artistiche. Ma certo non si tratta di un ritorno de tipo di “aura” della compiutezza metafisica anticipata negli anni venti e trenta del XX secolo e, per quanto riguarda l’architettura, dall’opera di Mies van der Rohe e dall’espace indicibile di Le Corbusier o dai progetti di Louis Kahn.
Negli ultimi trent’anni, sembra che lo spostamento (non tanto dal “che cosa” al “come” che è fondativi dell’arte di ogni tempo) sia avvenuto come sacralizzazione dell’idea di comunicazione e di libera creatività nel vuoto globale (pieno di interessi di mercato) come contenuto assoluto dell’”aura” delle opere dell’arte. La “riproducibilità” non è più atto politico di distribuzione egualitaria dei beni e dei servizi e l’aura ritorna a trionfare come processo di derealizzazione. Quindi si tratta di uno spostamento del significato verso il rispecchiamento (sublimato da una morfologia dissennata) dello stato delle cose e come consenso nei confronti dei valori e dei comportamenti omogenei promossi dai “poteri delle convenienze”, che sono a fondamento della post-società dei nostri anni: anche di una parte, per ora minoritaria, della società cinese. Credere, poi, come oggi sembra accadere, che le forme dell’architettura si siano messe a tremare e a fratturarsi o a ingigantirsi per rappresentare o far fronte esteticamente all’instabilità dei nostri tempi è un insulto all’intelligenza dei processi costruttivi della pratica artistica dell’architettura (anzi di tutte le pratiche artistiche), processi che non sono mai stati di rispecchiamento deduttivo.

 

 

 

 


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