Di fronte ad una città che cresce e si trasforma in metropoli, postmetropoli, conurbazione, regione metropolitana, megalopoli, sotto l’impeto del capitale e delle migrazioni, gli architetti si cimentano con carte e conti richiesti dal funzionamento della macchina burocratica o con pixel e parametri richiesti dal funzionamento della macchina informatica. E intanto la città non smette di crescere, in mano ad operatori, economisti, politici e sulle spalle delle masse già inurbate o in continuo inurbamento: tutti, beninteso, alla ricerca di un miglioramento delle proprie condizioni e con la speranza di un altro futuro. Quantità di persone e quantità di denaro che, cercando la loro collocazione su questo mondo, sempre più la trovano nell’urbano. L’urbanizzazione e l’infrastrutturazione, che sono tra gli strumenti più potenti dell’accumulazione capitalistica, hanno gradatamente fatto spostare l’attenzione dai bisogni, dalla qualità e dall’oggetto specifico nella realtà, al calcolo, alla quantità e all’estensione astrattamente proiettate su tutta la superficie terrestre.

E così ci troviamo sempre più spesso a considerare, e non certo illegittimamente, ciò che è utile al coabitare questo mondo (le case, le città) e a spostarsi in esso (le strade, i ponti), come un pericolo per la nostra stessa sopravvivenza, piuttosto che la ovvia risposta alle esigenze delle genti del mondo. E in effetti certe urbanizzazioni e infrastrutturazioni, quando da legittime risposte diventano domande strumentali all’accumulazione economica, suscitano qualche lecito interrogativo.

Come, in un clima culturale che fluttua tra il disinteresse alla rassegnazione, intervenire sull’urbano? Non mi sorprende che gli esiti di anni di ricerche del programma Urban Age della London School of Economics (finanziate dalla Deutsche Bank) abbiamo individuato nell’urbanizzazione densa e compatta e nel trasporto urbano su ferro la ricetta per affrontare i problemi delle città globali. Tralasciando considerazioni su possibili conflitti d’interessi, io mi chiedo come tali rimedi così standardizzati possano essere proposti, sebbene traspaia una generica contrapposizione da parte dei responsabili della ricerca contro le forze omologanti della globalizzazione. In alternativa alle superficiali ricette tecnico/amministrative della governance, credo che l’unico serio tentativo di affrontare i problemi della città d’oggi, nella sua complessità, possa essere una strategia che sia supportata da un lato dalla conoscenza approfondita della realtà specifica su cui si vuole operare e dall’altro da un’idea complessiva di città (non omologante, basata bensì sui temi della differenza, del rapporto parti-totalità ma anche dell’astrazione): città resistente, resiliente, rispetto alle forze in gioco.

La diversità delle città, di ciascuna città, così come di ciascuna parte che la compone, deve essere il punto di partenza e l’obiettivo di progetto, contro le forze omologanti del profit e del non-profit, del patrimonio e della miseria. Specificità locale, dunque. Culturale, economica, geografica, storica. Ma non solo, ovviamente. Nessuna strategia nimby (not in my back-yard) o localistica (ingenua o aggiornata) può oggi affrontare problemi necessariamente, evidentemente globali. Il locale, da solo, non basta. Il movimento moderno aveva visto nel cosmopolitismo un portato ineludibile della storia: un insieme di valori e diritti fondamentali, universali, basati sulla libertà, l’uguaglianza e la fraternità. Il linguaggio moderno era, alle origini, a sua volta portatore di quegli ideali, per poi gradualmente venir assorbito da altre logiche, tecniche e commerciali. Oggi il moderno è a sua volta storia e, al pari di tante culture locali, potrebbe assumere con esse perfino un ruolo di resistenza. Non sono tanto interessato al locale in sé stesso, quanto al suo modo di guardare all’universale e al globale. Di interagire con esso, senza farsi sopraffare ma senza nemmeno negarlo. È evidente che la carica innovativa (astratta, autonoma, assoluta) che può giungere da un altrove (geografico, culturale, tecnologico) sia una risorsa, non un problema, sempreché il luogo di destinazione sia capace di resistere, grazie alla sua storia e alla sua cultura, specifiche, per dare ogni volta alla luce un qualcosa di diverso, di migliore.

Le forme, nelle quali questo incontro tra quello che c’è e quello che non c’è si attualizzerà, costituiranno la possibilità dell’esistenza di luoghi disponibili alle narrazioni degli ospiti, intesi sia come ospitanti che ospitati. Le città, da distese di indistinti spazi urbanizzati accessibili in base al censo, potranno essere garanti della difesa dei diritti universali dell’uomo: città nella forma di costituzioni di pietra.

 


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