Per comprendere l’origine del malessere che affligge lo spazio pubblico contemporaneo può essere utile guardare alle rappresentazioni del progetto per une ville contemporaine di Le Corbusier del 1922. Le architetture delle torri a pianta cruciforme impostate sull’ordine di una gigantesca maglia ortogonale contrastano nettamente con uno sfondo rappresentato ora come un immenso ed indefinito vuoto ed ora come una sorta di selva, una natura, per mezzo della quale, forse, Le Corbusier cerca di riconquistare quell’unità del mondo classico che sente perduta. La rottura con la città tradizionale, fatta anche di strade e piazze, appare insanabile. L’assenza di precise relazioni, formali e funzionali, tra lo spazio pubblico e l’architettura moderna produrrà una crescente aleatorietà del primo, un progressivo isolamento della seconda e conseguentemente un sempre più ampio scollamento tra le due.

‘L’interno della città’ era andato smarrito. Ma cos’era accaduto all’interno domestico? In reazione forse anche alla descrizione di W. Benjamin ‘dell’interno borghese’- come di un luogo claustrofobico, opposto alla vivacità e vitalità della città – il moderno interno domestico si apre al sole, alla luce, all’aria, ed è in contatto con l’esterno, ma questo esterno non è la città, è la natura. Più tardi, intorno agli anni cinquanta, un gruppo di giovani architetti (Team 10), si fece sostenitore della necessità di tornare a considerare l’ambiente costruito come un’unità indivisibile e di riesaminare la relazione interno/esterno. In particolare Aldo van Eyck ne propose il superamento. Egli sosteneva che, in analogia alla natura mentale e psichica (in-between) dell’uomo – che oscilla tra il bisogno di protezione ed il desiderio di libertà – fosse necessario conseguire una coerenza nell’articolazione delle parti attraverso significative e psicologicamente efficaci transizioni, soglie, che sono spazi di relazione, d’incontro, spazi più o meno aperti, più o meno privati. Interno ed esterno non sono, quindi, realtà polari ma ambivalenti; analogamente la casa e la città sono ‘twin-phenomena’[1], ovvero unità duali, reciproche. Ne consegue che lo spazio urbano diviene significativo per l’uomo e capace di farlo ‘sentire a casa’ solo se questo può identificarsi in esso, riconoscendo nell’ambiente costruito la medesima liminalità che lo contraddistingue. Oggi, assistiamo ad una crescente esteriorizzazione del nostro spazio intimo, domestico (basti pensare alla nostra privacy su internet), a fronte di una rara interiorizzazione di quello spazio ‘tra’ le case che chiamiamo spazio urbano ma che ci appare molte volte straniante e insicuro. Portare il ‘domestico’ in uno spazio vuoto per farne uno pubblico e vitale e assumere la consapevolezza che la progettazione ex novo di una ‘piazza’ scaturisce dall’articolazione delle abitazioni che la compongono, che non sono elementi sussidiari ma costitutivi dello spazio pubblico, rappresenta non certo la soluzione al problema ma una pratica promettente.

 

 

Note:

  1. Francis Strauven, Aldo van Eyck. The shape of relativity, Architectura & Natura, Amsterdam, 1998, pag.463.

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