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Nel rapporto tra taglia e grandezza sta il problema della interdipendenza tra scala e paradigma. Per usare di nuovo una analogia antropometrica, alla grandezza della città, corrisponde una “taglia” sostenuta da una struttura. Col termine scala si è nominata la struttura che sostiene la taglia della grandezza.

Al di sopra di una grandezza limite della taglia, la struttura non è in grado di sostenerne l’insieme.
Alla struttura corrisponde un paradigma concettuale che a sua volta deve essere pensato per e nella mutazione. Altrimenti si è costretti a subire le conseguenza dell’insostenibilità.
La prima volta che ci si accorse di dover cambiare il paradigma, fu nei secoli che precedettero la “invenzione” del paradigma dello spazio astratto. Che coincise con la scoperta dello spazio proiettivo. E della corrispondente geometria proiettiva, la prospettiva. Ciò avvenne nelle città italiane. E precisamente a Firenze la città egemone tra ‘300 e ‘400, per l’intelligenza delle sua politica di crescita e gestione della stessa.
Il cambiamento fu, però, occultato dalla idea metastorica – tra metafisica e religione -, di dover competere con l’antichità, cioè con la città di Roma pensata come sintesi grecoromana dell’urbs, il campo d’azione delle società urbane. Entro tale preconcetto, il grandioso lavoro d’invenzione e perfezionamento della struttura e dei paradigmi di strutturazione urbana, vennero occultati, finchè, emersa la impossibilità di ulteriore perfezionamento del paradigma eleborato in tale grandioso lavoro pratico_teorico, ci si vide costretti ad abbandonare il paradigma stesso. Si pensò quindi di doverlo “gettare alle ortiche”, di dover fare tabula rasa.
In realtà nel prosieguo si vide che non si trattava di abbandonare il paradigma tout-court, ma di sovvertirlo in vista di un paradigma bensì inedito, ma soprattutto che non aveva “abandonato” quello pregresso, lo aveva bensì “scosso”, a suo modo “spaccato” nell’irrompere di nuove strutture che determinavano centri inediti in posizioni eccentriche. E costringevano a cambiare tutte le relazione tra parti ed elementi.
Si trattò, come tutti sappiamo delle infrastrutture di trasporto nella sinergia con gli apparecchi di comunicazione che sono diventati oggi, per il progresso delle scienze, “immateriali” cioè veicolate da fenomeni gestiti da apparecchi tecnologici basati su scoperte scientifiche inaccessibili al senso, se non per effetti. Sono queste due novità, conseguenti alle scoperte ed invenzioni, che non cessano di rinnovarsi, ciò con cui ci misuriamo nel pensare la città e le sue tipologie edilizie.

S’impone il tema della a-contestualità delle tipologie edilizie nella città odierna.
Le nuove costruzioni non sono accessibili solo dalle vie che conducono il percorso alle loro porte. Le più funzionali alla pratica odierna della città, sono quelle che “contengono” una “stazione” (perciò, la stazione stessa ferroviaria o l’aeroporto etc.). Consentono persino una pratica “virtuale” o in streaming del sito locale puntuale, una sorta di presenza sostituta. La quale completa la sovversione della situazione della prossimità che aggiunge alla prossimità in persona una prossimità protesica per la quale valgono in concreto i concetti di tempo utile e tempo reale. Per i quali la misura della distanza non conta. Invece quella del tempo di dislocazione (tempo utile) o di comunicazione (tempo reale).
Ripeto, oggi, la contiguità è solo una delle prossimità verificabili nel sito, perché reti veicolari e reti eletrotelematiche consentono un modo della prossimità tramite apparecchi equivalente ad essa.

A-contestuale è l’attributo della prossimità odierna, protesica o temporalmente equivalente quella contestuale.
Interroga a proposito di una nozione di contesto “attrezzato” e “informatizzato” cosicchè valga la una esperienza di prossimità multipla temporalmente equivalente con molti siti più o meno vicini o lontani.
Sia quella della comunicazione video-telefonica. Sia quella del trasporto aereo o d’alta velocità.
Come ho già detto vale persino la “presenza” in streaming ad un evento telematico che si svolge in un luogo dato. Tale dato di fatto è ciò su cui occorre riflettere perché reclama una sofisticazione nel proporre una fascinazione anzi una seduzione.
In questa ricerca non si trascureranno i prodotti dell’indagine scientifica. Nel dire del cambiamento nell’esperienza della prossimità, verifico le conseguenze sulla condizione somatica. Sul modo in cui si implica nella sua esperienza immediata ed irriflessa, la attrezzatura tecnologica di cui disponiamo, quindi il modo con cui ci rapportiamo agli altri e ne traiamo esperienze intellettuali e affezioni.
Oggi, abbiamo dovuto prendere atto che spazio e tempo non sono solo quello che abbiamo imparato ad apprendere per l’esperienza somatica ed attraverso le relative concettualizzazioni. E neppure quello che ci ha insegnato l’idealizzazione dello spazio-tempo postmedioevale o rinascimentale. È lo spaziotempo della fisica nucleare e subatomica, an-umano e in-abitabile.
L’avere appreso tali dati sovverte certezze.
Ciò non vuol dire che si possa rinnegarle.
Solo sapere che non sono assolute.
Nè basta dire che sono relative. Anche le altre, che pure annunciano un sapere di cui non avevamo alcun segno, lo sono.
Nell’assumerle sappiamo di dover pensare altrimenti le prime. Ma anche quest’ultime. Non altro.

Torno alla città.
A-contestuale è ciò che la città reclama per essere pensata oggi, nel tempo dei rapporti in streaming concretati dalla rivoluzione elettrotelematica. Perciò torno all’intuizione della ricerca di dottorato di Ariela Rivetta che intendiamo studiare per un prossimo numero di arcduecittà. S’intitola Critica della progettazione contestuale. E discute delle teorie architettoniche del secondo dopoguerra.
Comincia la sua investigazione dalla città lineare , il modello taylorista sperimentato in Russia e messo a punto da Hillbersheimer nei piani di Chicago degli anni ’40. Teorizzati da lui nei libri coevi. Discute quindi l’approdo della grosztadt wagneriana, appunto il modello lineare, in vista di un superamento.

Riconducendo ai termini della disciplina architettonica ciò che sembrava aver migrato in altre discipline emarginando l’architettura dalle scienze.

Partendo dalla città lineare come modello della grosztadt industriale, incontra la critica di Lynch. Che non prende nei termini lynchiani, perché prendendo l’indirizzo indicatole dal binomio, grandezza/taglia, scala /paradigma non si incaglia nell’antistoricismo della modernità, ma nelle discontinuità della storia, cioè nella
discontinuità degli evi nella esistenza urbana, la modernità non è priva di storia. La sua però è una storia senza l’ombrello della certezza metastorica di una mente platonica.
Si pone a principio quello di un processo di costruzione i cui paradigmi sono sistemi che si devono sovvertire in conseguenza di incrementi di taglia della grandezza (ordini di grandezza in termini matematici) . Si scopre che nella crescita, si raggiungono limiti nella taglia della grandezza insostenibili dalla struttura che reclamano nuovi paradigmi che contemplano la sovversione di nuove attrezzature di sostegno della grandezza. Quindi crescita e struttura interagiscono maturando, a soglie di insostenibilità strutturale, rivoluzioni paradigmatiche. Questo tema di ricerca del laboratorio misura e scala, interni urbani e paesaggi, cui demmo vita, Antonlla Contin ed io negli anni con gli allievi di allora definiva un nuovo orizzonte alla teoria dell’architettura nell’affrontare entro il tema della crescita urbana il rapporto tra tipologia edilizia e morfologia urbana. Si doveva chiarire meglio il rapporto tra Metabolismo urbano e Biografia urbana. essi furono messi a punto per capire implicazioni incomprese tra processi di produzione e funzionamento degli insediamenti e processi di funzionamento e di uso degli insediamenti.

Penso che le soglie di discontinuità evale, o di rivoluzione paradigmatica, nella biografia urbana, siano quattro nei confronti di cinque “evi”. L’evo della struttura archetipa, del canone della misura e della forma greco, della coniugazione tra città e dimora nella tipologia della villa romana, che la religione cristiana traduce nel convento prima e nel comune poi, del progetto per tipi e modelli prefigurati nel disegno dello spazio astratto, del “ritorno attrezzato” alla natura, dal momento in cui una dotazione di attrezzature scientifiche conferisce agli uomini poteri ed energie ulteriori a quelle naturali.
Di tale stato, in tali temperie, s’impone la riflessione che preconizzai più sopra.
Essa peraltro è nominata da tempo come ricerca dello zeitgeist d’oggi.
Una ricerca da intraprendere e condurre a termine.

Un tema da riflessione, quindi, è la combinabilità di intelligenza scientifica della realtà e immediatezza dell’espressione. O la coesistenza di astrazione e spontaneità. O la combinazione di esperienze di spazio astratto nell’attuazione di comportamenti fattuali e concreti. Ne ho parlato come interazione di astrazione e concretizzazione nei processi produttivi dell’opera. È il tema genetico del processo di produzione industriale. Quello che l’intelligenza artificiale non può affrontare. Il compito cui solo l’uomo può far fronte. Anzi cui è costretto.
Di questa costrizione debbo dar conto. Cito perciò un passo di Desanti dall’introduction à la phenomenologie.

Nella sua Physique, 188_ 30, Aristotele, parlando dei primi ed antichi filosofi che avevano posto i «contrari» nel novero dei principi scrive: «lo hanno fatto senza darne ragione (aneu logou) ma costretti dalla verità stessa (anankasthentes hyp’autès tès alêtheias).» Erano forse costretti da qualche enunciato che essi avessero potuto ascoltare o pronunciare: un enunciato «vero»? Per nulla affatto.
Erano costretti da ciò stesso che si manifestava: l’acqua che scorre, l’olivo che spinge, il bambino che nasce e cresce, per quello stesso che nella loro lingua reperivano sotto il nome di physis ed alla quale essi si piegavano per prendesene cura. E i loro discorsi (che Aristotele ci riporta) erano proprio l’espressione della cura che dovevano averne, anche aneu logou, senza disporre di un sapere pienamente giustificato.

Ci capita di nuovo questo, benché del tutto mutato. Cioè a partire da un sapere estremamente evoluto ed una dotazione di strumenti del tutto efficienti, ci troviamo a praticare aspetti del mondo di cui sappiamo poco. L’obbligo, forse, coincide con la libertà. Penso.
Coincide con l’inquietudine che accompagna la “cura” del “manifesto”. Di quanto, sotto il nome di “ciò che si manifesta” (un sinonimo di natura, termine forse, divenuto insignificante) costituisce l’orizzonte dell’esistenza stessa, cioè la sua condizione, anzi, la pre_condizione dell’essere umano, della nascita, dico. Siamo obbligati a prendercene cura, anche aneu logou , senza saper ne abbastanza del suo essere. Salvo sapere che è condizione d’essere.
Che esige il lavoro di costruzione della città, la cura.
Ed anche quello del pensiero, quindi, del “come” ce prendersene cura, progettando la città, oggi.

 

 


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