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Kevin Lynch presenta la complessità di definizione del concetto di modello nel suo rapporto con l’epistemologia e la standardizzazione prestazionale e di come tale rapporto influenzi il processo creativo.
“Le decisioni progettuali sono, in larga misura, basate su modelli che stanno nella testa del progettista” stipati come in uno schedario mentale di immagini predefinite. È presumibile che tali modelli derivino da teorie più generali; questo non li pone tuttavia in una condizione di subordinazione o di monodirezionalità rispetto ad esse, quanto più fa luce sull’ambiguità, concettuale ed epistemologica, del loro rapporto, che sia di sovrapponibilità o di indipendenza a seconda dei casi.
Il primo passo è quindi quello di circoscrivere semanticamente il termine modello partendo dalla sua definizione. L’analisi di Lynch parte da una selezione che possa essere esemplificativa della varietà di significati che tale termine può assumere:

a. “nell’accezione comune modello si riferisce alla miniatura (scalatura) materiale, tridimensionale, di un edificio, di un macchinario, di un paesaggio, di un’automobile” (estende l’accezione alla nozione di supporto di immagini che si rendono indipendenti dal supporto, come nell’ambito della moda costituisce un sinonimo di indossatore, colui che presenta nuovi abiti in pubblico).

b. modello è il termine accademico corrente per definire una teoria astratta sul funzionamento di qualcosa, i cui elementi nelle loro reciproche relazioni vengono definiti nitidamente soprattutto in termini quantitativi.

c. modello nella sua funzione attributiva: “non molto tempo fa modello era un aggettivo che significava degno di imitazione, ed è a questa tradizione che farò riferimento”.

Più nello specifico un modello corrisponde ad una rappresentazione di come un ambiente dovrebbe essere strutturato, a una descrizione della forma o del processo che costituiscono il prototipo da seguire, indipendentemente dall’iter progettuale o dalle intenzioni, il suo utilizzo è un’operazione congenita e strutturale del processo creativo (paradigma), che sia questo di apparente mimesi piuttosto che di più esplicita sovversione, che sia sotteso alla creazione di nuovi ambienti o alla ristrutturazione di preesistenze. Il processo di progettazione usa sempre dei modelli, anche se questi possono essere adombrati dall’innovazione o essere declinati per scopi differenti da quello originario. Standard e dimensioni prestazionali sono i mezzi attraverso cui vengono valutati questi modelli, ma non rappresentano essi stessi dei modelli a meno che non si arrivi ad un livello di dettaglio tale da normalizzare o definire una forma specifica. Specificare standard e dimensioni prestazionali è comunque alla base del processo progettuale che abbia una risoluzione formale e lo stesso Lynch la individua come una tra le due operazioni che stabiliscono le regole definitorie della forma urbana: “dare delle prescrizioni o specificare le prestazioni”. L’astrazione degli standard prestazionali permette una maggior flessibilità risolutiva concedendo da un lato più ampio spazio ad innovazione e sperimentazione ma aumentando dall’altro il livello di nebulosità e indeterminatezza del progetto dilatandone tempi e costi.
Dimensioni e standard prestazionali sono dunque meno adatti a fornire soluzioni applicative concrete quanto piuttosto compatibili alla costituzione di una visione normalizzante più squisitamente teorica, ma coerentemente cumulativa, e quindi universale, adottabile in qualsiasi cultura e in ogni tipo di circostanza.
L’errore più grande rappresenta l’applicazione, in cui spesso si incorre, della stessa ecumenicità e compiutezza al concetto di modello. Tendenzialmente l’utilizzo del modello fornisce delle prescrizioni, ma molto spesso tali prescrizioni non sono altro che una risposta concreta a determinate prestazioni la cui formulazione difficilmente descrive una forma d’ambiente riconoscibile. Risulterebbe quindi semplicistico e limitativo cercare di formulare una legge che abbini unilateralmente prescrizioni e prestazioni, modelli e norme. La concezione compartimentistica [1] dell’idea di modello, visto come una forma finita in sé stessa, non tiene conto del processo attraverso il quale tale forma è pensata, né tantomeno riflette sulla tangibilità del cambiamento continuo, dello stato progressivo delle cose per cui nessuna forma è permanente. Questo ha portato ad una frattura tra gli urbanisti per cui i sostenitori del processo hanno preso le distanze dai formalisti e dal concetto di forma in generale, contestandone rilevanza e imprescindibilità all’interno del percorso progettuale: “Non importa quel che sarà lo spazio urbano una volta finito, ma con quali intenti sono state prese le decisioni e con quali mezzi sarà eseguito”.
La qualità di un ambiente sta nelle conseguenze che esso determina sull’uomo, ed il processo progettuale dovrebbe sottendere a questo obiettivo proprio attraverso la formulazione di una risposta formale e spaziale. Perciò un percorso che raggiunge il suo apice nella fase metaprogettuale, può essere tanto autoreferenziale quanto certe preoccupazioni sulla forma più astratta, indicative di un’attenzione rivolta più alle cose che non al loro impatto a lungo termine sulle persone. “In situazioni particolari talvolta la forma e talvolta il processo possono rappresentare la preoccupazione dominante, ma di solito vanno di pari passo”. Uno spazio dovrebbe essere valutato sulla base del processo progettuale che ne ha costituito la formalizzazione, come una certa caratteristica sia stata realizzata, cosa esso sia, come venga gestito e cosa rappresenti per una comunità in perenne evoluzione. Idealmente sono proprio i modelli a determinare forma, momento creativo e momento gestionale, ma nella pratica la maggior parte di questi tende a privilegiare solo uno di questi aspetti trascurando gli altri. Una buona percentuale dei modelli a nostra disposizione costituisce di fatto un’immagine embrionale di quel dato concetto, una soluzione parziale a quel preciso problema, cristallizzata ad uno stadio di compiutezza privo di suggestioni in merito alla relatività del contesto e alle nozione di crescita urbana, demografica e sociale, in merito al processo di sviluppo e transizione di una società da tradizionale a moderna, una risposta scevra di riflessioni progressiste se non obsoleta in principio, del tutto inadatta a fornire soluzioni atemporali. Lynch stesso in questi termini si esprime suggerendo proprio la necessità di una progettazione che sia in anticipo sui tempi e la creazione di nuovi prototipi che riflettano concretamente questa esigenza, che siano utilizzabili in quelle situazioni e per quelle regioni che oggi sono ancora in fase di sviluppo.
C’è una componente fondativa di questa riflessione che risiede nella disillusa consapevolezza di una sostanziale inadeguatezza modellistica della progettazione urbana.

IMG_20201104_2155341-minIl culto rappresenta un movente nella storia dell’urbanistica; il primo modello urbano sembrerebbe essere stato proprio quello cosmico-sacrale: le città nascono come centri cerimoniali il cui potere attrattivo comporta la formazione spontanea dei primi aggregamenti insediativi contadini che ne garantiscono il sostentamento. La conseguente espansione di questi centri ha poi fisiologicamente comportato la ridistribuzione del potere e delle risorse materiali tra una classe dirigente. La formalizzazione nell’assetto edificativo cittadino di questi rituali religiosi rappresentava il principale strumento che concorreva alla strutturazione e al mantenimento del potere pubblico, uno strumento di paura e seduzione basato su una teoria di corrispondenze magiche. “La forma di qualsiasi insediamento a carattere permanente deve essere una magica copia dell’universo degli dei”.
Al di là della distinzione di differenti declinazioni del modello, Lynch più nello specifico ne segnala fondamentalmente due, quella cinese e quella indiana, è importante sottolineare come tale modello sia stato perpetrato nei secoli e abbia di fatto posto delle basi così granitiche da essere ancora, seppur con una differente consapevolezza, non dissimile negli scopi, tutt’oggi utilizzate.
Il modello cosmico ha stabilito le relazioni proporzionali e locative delle varie parti della città, innescando dei meccanismi che ancora funzionano e condizionano la società contemporanea, ha creato un’imprescindibile gerarchia regolamentativa sottesa all’ordine e alla stabilità, che demarca un dominio del grande sul piccolo, dell’alto sul basso, che separa le istituzioni dalle zone residenziali “le città capitali vengono ancora concepite con assi monumentali, i giudici guardano gli imputati dall’alto in basso, si costruiscono uffici che colpiscano l’immaginazione, le grandi società gareggiano per il palazzo più alto”.

IMG_20201104_194220-01-minL’industrializzazione comporta un’automatizzazione concettuale del modello di città che vede nella macchina un riferimento interpretativo funzionale. Il movente più nello specifico è legato alle tempistiche, all’incremento dei servizi e delle infrastrutture, ad una regolamentazione della crescita urbana. In termini formali, il modello macchinista affonda le sue radici nella suddivisione in isolati ortogonali tipica delle città egizie costruite per assicurare gli alloggi ad operai e guardiani che prendevano parte alla costruzione elle piramidi, piuttosto che del piano regolatore dell’accampamento romano (cardo e decumanus). Non è casuale che tale modello si sia rivelato particolarmente utile ovunque gli insediamenti avessero carattere di provvisorietà o di ristrettezza tempistica, con scopi pratici chiari e limitati come si può vedere in moltissime fondazioni coloniali. Lo scopo primo del modello macchinista è quello di fornire soluzioni rapide ed efficienti, mettere a disposizione terre e risorse dotandole di un sistema ben distribuito di accessibilità. “Quest’idea della città macchina ha i suoi vantaggi […] per la rapida e giusta divisione dello spazio e per la gestione dei flussi di merci e di persone”.
Per quanto apparentemente funzionale, quella macchinista rimane tuttavia una visione semplicistica e disumanizzante della città, che spesso maschera una forma di dominio sociale solo meno esplicitamente esibizionistica rispetto a quelle delle teorie ispirate dal modello cosmico.

IMG_20201104_194238-01-min3E’ forse il terzo modello, quello organicista a cogliere più sensibilmente la complessità di un insediamento urbano, proprio in risposta alle semplificazioni dell’automazione e dell’industria. L’analogia di riferimento è questa volta tra città e organismo. Di particolare interesse risultano gli spunti in merito all’interdipendenza tra le parti, quell’atteggiamento che tende a concepire un insediamento come l’insieme di molte funzioni i cui diversi elementi sono in costante e reciproco interscambio, dove processo e forma sono indivisibili.
Il recupero dell’artigianato si oppone alla standardizzazione della produzione industriale in una nostalgica visione per l’ambiente rurale e le piccole comunità del passato. Il recupero del rapporto con la natura auspicato è fin troppo radicalizzato e difficilmente sostenibile, con la tendenza a negare tutto ciò che è artificiale e di conseguenza umano in una seppur diversa reiterazione delle dinamiche isolazioniste prima sottolineate all’interno della città-macchina.

Quello organicista è sicuramente il modello con maggior consapevolezza rispetto alle problematiche odierne e maggior volontà interpretativa di quelle che possono essere solo alcune delle fragilità sociali e formali delle città di oggi. In questo senso sembra sopperire sotto il peso della propria radicalità nel sostenere e portare avanti un disegno analogico che è puramente sovrastrutturale e limitante.

E’ inevitabile, che un tentativo interpretativo e regolarizzante, di qualcosa di così complesso e indefinito, dinamico e in continua mutazione come la città, che cerchi risposte in un modello fondato sulla determinatezza di un precipuo leitmotiv, che si focalizza su un aspetto al di sopra di altri o su più aspetti comunque appartenenti alla stessa sfera semantica, risulti in ultima analisi fallace, monodirezionale e autoreferenziale, incapace di fornire una risposta sufficientemente cumulativa e soddisfacente.
Paragonare la città ad una macchina piuttosto che ad un organismo vivente risulta ugualmente fuorviante e semplicistico. Non c’è elemento all’interno di essa che svolga di fatto una singola funzione, risulta quindi impensabile poterla nettamente frazionare in porzioni unilateralmente funzionali, mortificando inoltre l’aspetto sociale e comunitario alla base delle relazioni umane, in favore di un alienante isolazionismo. Le zone di transizione e gli spazi interstiziali costituiscono le situazioni più frequenti, le ambiguità sono importanti, per ragioni di scelta, flessibilità o complessità, per quell’anarchico bisogno di appropriazione dello spazio pubblico insito nell’uomo, nella sua deambulazione tra ordine e caso sottesa ad un disvelamento degli aspetti più latenti dei luoghi e degli oggetti in una visione defunzionalizzante, definita ovvero da una volontà sovversiva di utilizzare lo spazio.
Ognuno dei precedenti modelli non è altro che una risposta formalmente parziale alla stessa domanda, le cui variazioni sono frutto della distanza contestuale storica e regionale, ma questo non ne esalta l’autonomia interrelazionale. D’altronde come il singolo edificio è una rappresentazione collettiva in termini modellistici la pretesa che la giusta forma della città risieda in un modello interpretativo univoco è quanto meno utopica.

[1] che denota ovvero una separazione priva di collegamenti o di cooperazione intersettoriale o interdisciplinare.


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