Cartella_Li Calzi_cover pubblicazione

 

 

Antefatto.

Epifanio la teneva sottobraccio, un grosso contenitore di cartone abbottonato. Con una etichetta bianca piccola ed una scritta battuta a macchina : E.N.R. Un guizzo d’ irrisione sotto le ciglia aggrottate, nel complice ammiccare ricordava che ci eravamo battuti da opposte bande, dieci anni prima. Quel giorno, però, venne da me. E mi disse che la cartella conteneva i testi delle lezioni, manoscritte e dattiloscritte, consegnategli dal professor Rogers per una pubblicazione da farsi con lui  dedicata all’insegnamento del “Corso di caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti”. Forse l’anziano professore, già malato, sperava di riuscire con il giovane allievo, che lo aveva già aiutato per la redazione degli editoriali, a pubblicare il corso. Lo aveva detto esplicitamente nell’ultima prefazione: «Mi è stato d’aiuto – e lo ringrazio – uno dei miei migliori allievi, Epifanio Li Calzi, uomo che stimo e con il quale ho un immediato scambio di idee» [1] . Forse il rinnovarsi del feeling con un allievo talentuoso gli fece concepire questa estrema impresa, malgrado il corpus delle lezioni fosse stato saccheggiato per gli articoli di Casabella. Forse entrambi sapevano che il pubblico cui era rivolto il corso era il più esigente, proprio perché – ignorando ciò che voleva avere – reclamava dalla cattedra il meglio. E Rogers si era preparato a questo con la più accurata esegesi degli argomenti e la più sistematica concatenazione tra loro, non condensabile negli articoli. In ogni caso la cartella testimoniava che, quando il lavoro fu interrotto, la collezione dei materiali prodotti per il corso di “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti” ordinata per annate era ultimata, e che il lavoro per la pubblicazione era avviato. Ma non fecero a tempo ad ultimarlo.

 

1° parte.

La formula del Corso di “Corso di caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti ” e l’Utopia della realtà.

E il professor Li Calzi, qualche anno dopo venne da me con la cartella sottobraccio. E me la consegnò. Così facendo mi coinvolse nel suo impegno.

Mi proponeva di fare insieme il libro delle lezioni del corso che avevamo frequentato. Gli pareva, d’altra parte, che ci fosse una naturale complicità di allievi nel portarlo a termine poiché entrambi avevamo ammirato l’insegnamento di Rogers.

Non so perché, la pubblicazione non si fece. La cartella, però, restò da me. E rimase a lungo nel mio archivio. Era zeppa di manoscritti e dattiloscritti delle lezioni tenute dal ’52 al ’57. Correvano gli anni della contestazione. Non quella del ’68, quella dei tardi anni ’70, della radicalizzazione. Forse l’eccellenza squisitamente culturale – slegata dalla politica, legata invece all’etica, sempre al centro dell’insegnamento di Rogers – dissuadeva gli editori. Forse non compresero che l’impegno di Rogers in queste lezioni era stato molto diverso da quello perseguito nella rivista.  Era quello, invece squisitamente accademico – persino trattatistico, benché in una forma moderna – che, dismessa la retorica togata, sviluppava gli argomenti nel tono colloquiale che cercava, sotto la facilità dell’esposizione, di dipanare i concetti più ardui. Sapeva il maestro, che – nel rivolgersi ai più giovani, da pari a pari – non si annullava la disparità del ruolo di maestro e allievo. La pariteticità non è eguaglianza fattuale ma motivazionale tra chi sta passando il testimonio di cui sa il valore e chi, nel riceverlo, vuole testardamente farne motore della sua corsa; non conta l’ignoranza, ovvia, ma la motivazione di chi sa di dover rispondere all’urgenza del futuro che sta davanti a entrambi, in modo assai diverso, da maestro e da allievo. Per questo le lezioni erano scritte e perfezionate anno dopo anno. Una “filosofia applicata”, sapiente come quella dell’amico Enzo Paci, allievo di Banfi. Ma nella sua disciplina. Dico filosofia. Dovrei dire, in un Ateneo Politecnico, piuttosto una teoria dell’arte, o un saperfare. Tale considero il corso di Rogers. Del quale studiai le lezioni scritte – contenute nella cartella – facendone l’inventario ed una prima ricognizione delle tesi.

Quando fu chiaro che il libro non sarebbe stato fatto, interruppi il lavoro. Non potevo portarlo a termine da solo. Tuttavia potevo approfondire lo studio e farlo studiare da qualche allievo. Perciò, qualche anno dopo, proposi ad Antonella Contin – che aveva chiesto di laurearsi con me – di studiare le lezioni. Cosa che fece con diligenza estrema ma soprattutto con intelligenza acuta, traendone negli anni successivi – quelli del Ph.D. in progettazione architettonica ed urbana – una “lettura” originale.

Valorizzava il rapporto, normalmente trascurato, tra la formula A = f (U;B) – Architettura, è funzione di Utile, Bello – che sintetizza l’idea del corso e l’aforisma Utopia della realtà che indica la mira dell’intenzione progettuale moderna. Forse, nessuno ha enunciato con altrettale precisione l’essere dell’architettura moderna nell’animo di chi è all’opera. Forse nessuno ha neppure chiarito, con altrettale lucidità, il rapporto tra l’analisi dell’opera e la progettazione architettonica. Perciò lo ponemmo al centro del nostro intervento nel seminario internazionale “Monumento e Stile” organizzato con la Cattedra di “Estetica” dell’Università degli Studi che facemmo in seguito, nei primi anni ’90. Mi rammarico che non siano stati redatti gli atti di quel convegno cui partecipò il fior fiore dell’estetica italiana (Franzini, … Trione, … ).

D’altra parte ero distratto da un nuovo tentativo di pubblicare le lezioni di Rogers nel Dipartimento di Progettazione dell’Architettura. Pensavo che fosse la sede adatta a valorizzare il lavoro della Contin e a rinnovare l’attenzione ad un corpus “scientifico”  che illumina la svolta della modernità nel secondo dopoguerra ed anticipa le motivazioni della rottura all’ultimo C.I.A.M, quello del ‘60.

Neppure questo tentativo ebbe successo.

La cartella e le trascrizioni caddero nell’oblio sul suo scaffale della biblioteca.

Molti anni dopo mi fu richiesta. Li Calzi venne, infatti, di nuovo da me. E gliela riconsegnai. Oggi, se ne sono perse le tracce. Resta solo la trascrizione – e soprattutto lo studio – che ne fece la Professoressa Contin. Per questo le ho chiesto di pubblicarlo.

 

2° parte.

Ho molto pensato alle tesi di Roger, dopo il tentativo di allora. E sono giunto alla conclusione che questo corpus, nel suo naturale legame con l’Utopia della realtà, possa conferire alla “visione” italiana della modernità un fondamento radicato in una scienza dell’architettura, ed emanciparla dalle poetiche che delegittimano le scuole, preconizzandone una “visione” ludica, autoreferenziale e narcisista. Del resto si guadagnò un’autorevolezza particolare nell’assise internazionale dei C.I.A.M. , proprio negli anni in cui io ed Epifanio ne frequentammo i corsi.  Nei suoi corsi di teoria, non aveva inteso parlare di una cultura locale ad un’assise locale, ma dei problemi dello stile internazionale che vedeva esposto ad una svolta esistenziale. E tale lo ricordavamo.

 

Archetipo e zeitgeist.

Oggi mi appare chiaro che Rogers espresse nel binomio cui approdò negli ultimi anni – formula e utopia – il problema principale che travaglia l’architettura moderna: il rapporto tra archetipo e zeitgeist. Su questo tema porto, qui, un contributo. Parlo di zeitgeist, nella forma di domande ed attese inevase che assediano l’intenzione che motiva il lavoro, e di archetipo, che si può cercare solo mettendo alla prova il sapere pregresso, forzandolo, attraverso il lavoro sotto l’occhio vigile del pensiero, a cercare una strada di svelamento di ciò che urge nelle domande inevase.

Parto dal principio di appartenenza al Politecnico di Milano  della Facoltà di architettura, – sintesi di Cattaneo e Boito – «L’architettura è arte applicata» per illuminare l’emergere di questo tema come chiave della modernità e del rinnovamento dell’intera disciplina, ben oltre la tabula rasa in uno strutturalismo esposto dalle opere d’architettura nel corso delle epoche. L’enunciato – espone i seguenti postulati: l’architettura è un lavoro che si applica a qualcosa del mondo; l’architettura si apprende solo dalle opere sorte dal lavoro che si applica a qualcosa nel mondo; occorre un’analisi strutturale dell’opera per trarne un sapere che è saperfare. Il ‘tipo’ è ciò che enuncia il saperfare nel fatto come appartenente al mondo, bensì scoperto da qualcuno nel suo tempo, ma come appartenete al tempo del mondo. Esso non tanto rivela differenze, mostra, invece, fondamenti e strutture sempre più onnicomprensive.  Saperle estrarre come “tipico” e archetipico – nell’esemplare, o nel caso – è la meta di analisi, imprescindibile, oggi compito della scuola. Anche l’analisi, applicandosi all’architettura del proprio tempo si fa più penetrante articolata e complessa. Ma evidentemente, in quanto rivela qualcosa del tempo del mondo, non può escludere ciò che di questo tempo del mondo, è stato scoperto ed esposto nelle opere pregresse fino alle più antiche. Nell’andare oltre i fondamenti e le strutture preesistenti, nella sintesi pur personale,  è in esercizio, nella ricerca d’andare oltre, proprio il pregresso . D’altra parte La «concezione del passato –– lo dice in L’utopia della realtà… –  – non è né una serie di periodi concatenati, guidati guidati da una logica meccanica, né, all’opposto, un’esplosione di eventi fantasiosi, forieri di ogni impensabile capriccio… E’,  innervata nei – vitali fenomeni della storia …. tra continuità e crisi»

Si compie, così l’inversione dello sguardo, dalla tabula rasa ad uno studio strutturale della costruzione, che è composizione. Lo studio è organizzato da una formula: A= F(U,B). Essa, espone il rifiuto del funzionalismo. Il bello non si può eliminare.  Non basta l’utile. Da un lato, occorre mettere alla prova ciò che si sa del mondo e ciò che si sa fare in esso, opponendolo alle proprietà di ciò che appartiene al mondo (e che si mostra nei fenomeni), e verificare che ciò che si pensa occorrere, possa “esser fatto”. Si mette in gioco un duplice adeguamento, della mente al mondo e del mondo alla volontà. Nel fare non si opera sulla sfera interiore dell’individuo. Benché sia messa in gioco l’ora vissuta nella sua irripetibilità. Il giudizio estetico o morale, sono preliminarmente sospesi nel riguardare le proprietà della cosa architettonica.  Se è così, come sfuggire alla replica della copia?

 

L’utopia della realtà o la mira intenzionale.

La formula che organizza l’analisi delle opere secondo i relativi temi oggetto del corso si fa allora funzione di un’azione – esplicitata dal lavoro dell’architetto progettante – nella quale il sapere è in esercizio non automaticamente, ma assediato da domande e aspettative insorgenti nel corso del lavoro stesso, nel presente della sua ora all’opera. Tale sapere in esercizio assediato di domande è esposto da una massima: Utopia della realtà. Essa qualifica il saperfare con il termine realtà posto ad attributo del suo contrario, l’Utopia, che ne è il soggetto. Dunque è la ricerca di qualcosa che non è in nessun luogo, meno che mai nella testa (sarebbe allora già saperfare quindi generatore di “già fatti”) che si accinge al progetto d’architettura. L’idea è ancora da trovare. Il sapere pregresso è messo sotto scacco da domande prive di risposta che si affollano attorno ad esso. Annunciano un nucleo di ignoranza del possibile nel saper fare. Utopia significa radicalmente questo: non so se si può fare.  E riguarda ciò che si deve persegue con urgenza e costanza. Allora, può considerarsi “etica del ricercatore architetto”.  L’obbligo di ricercare incalza. Costringe a perseguire una strada incerta il cui rischio è il fallimento. Il guadagno però è un vero aver capito come fare (aver capito una “verità” del mondo e un nuovo potere). E una ricchezza nuova.

Il guadagno è conseguire un “saperfare” come “non mai prima” e viene dal rischio di aver perseguito la ricerca dell’inedito « […] non è architetto chi si arresta alle soglie del processo compositivo: chi crede che il reperimento e l’approfondimento dei dati, pur essendo condizione necessaria della nostra professione, diventi sufficiente […] esso è valido soltanto, quando sia tradotto nelle forme reali dell’opera architettonica, leggibili nel progetto stesso. […] i due momenti non possono essere scissi e parzializzati perché appartengono, in modo essenziale e unitario, al processo genetico e finalistico del fenomeno architettonico» [2].

Aggiungo ora mettendomi nel contesto della scuola per la quale Rogers scriveva: appartengono alle domande concepite dallo studente nel momento in cui esercita il sapere che gli è stato insegnato. Vi è un nucleo di dubbio sul potere di tale sapere. Non si tratta solo di ignoranza. L’insegnante non può non combatterla. Ma deve saperla distinguere dalla domanda che lo studente porta con sé per l’appartenenza ad un tempo proprio diversamente orientato al futuro rispetto al docente. Nel momento dell’esercizio del sapere, lo studente è a pieno titolo un “progettista” che sonda il sapere consegnatogli secondo proprie domande – nel momento che assume a tema d’esercizio – il “paradigma” di un tipo edilizio entro la città. L’Utopia della città è allora una mira intenzionale entro il processo del fare.

 

Disegnare o lavorare nel progettare un’opera di architettura.

Scienza dell’architettura ed etica della mira nel progettare come principio pedagogico di una Scuola dell’architettura moderna.

Ci si trova di fronte ad un momento interiore di un soggetto_attore nel momento più qualificante l’impiego del tempo proprio: il lavoro di disegno e progetto di mani istruite sotto l’occhio pensante che vigila e dirige.  Nel momento in cui si trova di fronte alla prova del sapere – dubitando del sapere stesso di fronte ad aspettative inevase che generano domande – l’autore_architetto sa di correre un rischio nell’allontanarsi dai modelli approvati da chi, avendo già messo alla prova l’insegnamento, manifesta l’hubris dell’ambizione. Se riesce, però, il presente proprio s’incorpora – per così dire – nell’opera che è “del mondo” e “nel mondo”.

Nella scuola, questo aspetto è generalmente dimenticato. Nell’accademia era addirittura censurato. Diventa, perciò la qualificazione, più autentica della modernità.

Rogers lo sapeva. E lo confessa all’inizio del suo libro in cui dichiara la sincerità, e il timore implicito, di « dover esibire il carico interiore di passione che mi fa agire nell’insegnamento […] che rischia […] eventuali errori d’indirizzo scelto». E conclude « La guida che ho cercato di dar loro è stata per lo più di carattere psicologico, con l’infondere la curiosità, l’interesse e l’entusiasmo […] aiutandoli così a […] scoprire il “telos” delle loro operazioni, sforzandomi, a mia volta di percepirlo, e caricandomi di fiducia crescente per quanto concerneva i loro risultati» [3].

Appellare lo studente all’esercizio della sua “competenza” – nell’accezione di Choay – e saper rispettare, nel suo lavoro, le domande del suo tempo è il nuovo compito dell’insegnante. Con la parola “competenza” nomino ciò che ho chiamato “lavoro di mani istruite sotto l’occhio pensante che vigila e dirige”. Nel cercare un fondamento alla scuola della modernità, l’autore – che ne è stato riconosciuto esponente – approda, alle soglie della seconda modernità, ad una “visione” che illuminala via seguita da altri indipendentemente da lui – in altri luoghi, per altre vie – illuminando il centro problematico di cui si sta parlando: il rapporto strutturale tra archetipo e zeitgeist.

Lo sto dicendo nei termini di Rogers, che non usa i termini propri ad un tempo successivo, ma che guarda il problema del tempo nel presente, il passato come scienza o struttura, non come grido d’ impotenza. Cito, allora, questo passo nell’intento di far altrettale luce sull’antefatto dello sbocco il corso di analisi dell’architettura “Caratteri stilistici dei monumenti” nei confronti dell’Utopia della realtà.

«Si può rendere edotti gli studenti più sensibili»dice Rogers, in Utopia della realtà«che la concezione del passato non è né una serie di periodi concatenati, guidati da una logica meccanica, né, all’opposto, un’esplosione di eventi fantasiosi, forieri di ogni impensabile capriccio. Basta spiegare come i vitali fenomeni della storia sono stabiliti dal movimento tra continuità e crisi: i termini del processo mutano ma è rimasto costante, per secoli, il modo spirituale di produrre gli oggetti di architettura, anche se i prodotti sono risultati tanto diversi. In questi tempi, la grande rottura del sistema creativo e critico dell’architettura è dovuta proprio alla consapevolezza della metodologia: da qui il percorso si svolge secondo una continua, indeterminata problematica dove si pone la soluzione formale di ogni oggetto nella particolare luce che viene scoperta e suggerita, di volta in volta, dall’approfondimento dei dati, sorti dalle peculiari caratteristiche atte a descriverlo» [4].

Cosa intendo sottolineare? Nell’enunciare il concetto “il passato non è né una serie di periodi concatenati, guidati da una logica meccanica, né, all’opposto, un’esplosione di eventi fantasiosi, forieri di ogni impensabile capriccio” Rogers sostiene si tratti ogni volta di un incontro con i vitali fenomeni dell’essere al mondo, di volta in volta “vissuti”, nel seguito del tempo e delle generazioni che li vissero. Nel far fronte ad essi – benché fossero diversi i casi delle generazioni – non potevano ricorrere ad altro che ad una risorsa interiore costante [la chiamo “competenza”] che mette in esercizio, di volta in volta, il sapere del tempo nella sintesi nella quale è stato acquisito, organizzato, da una scienza del metodo da applicare ai casi. L’energia interna che mette in esercizio il sapere nella sintesi organizzata dal metodo – lo ridico con le parole di Rogers – stabilisce un

«percorso da svolgersi secondo una continua, indeterminata problematica dove si pone la soluzione formale di ogni oggetto nella particolare luce che viene scoperta e suggerita, di volta in volta, dall’approfondimento dei dati, sorti dalle peculiari caratteristiche atte a descriverlo. Perciò ogni oggetto è singolare, specifico in sé ma atipico per quanto concerne la possibilità di riportarlo in ogni caso che si discosti dal proprio» [5]

Posta in questi termini la nozione di appartenenza ad un tempo proprio del processo del disegno o progetto architettonico, è condannata dal metodo a produrre un caso atipico. Viceversa,

«la società moderna non può rinunciare ad aspirare all’archetipo che rappresenta un momento particolarmente felice della continua ricerca, un momento dove diversi termini del processo morfologico, tecnico, espressivo, convergono armonicamente onde servire per la ripetizione di questi temi che, per condizionamenti analoghi, fisici ed estetici, possono essere finalizzati verso un’evoluzione di termini così assomiglianti da potersi considerare identica» [6].

È l’opposizione di atipico, come singolare e specifico, perciò non incorporante in un caso paradigmatico cioè istruito di una novità di struttura, i problemi delle aspettative inevase  dal saperfare pregresso; l’opposizione ripeto – con archetipico, come originario di una forma “primaria” che possiede una struttura ripensata in modo inedito; proprio questa opposizione mi consente penso di nominarla oggi con parole d’oggi, come opposizione tra zeitgeist ed archetipo. Anzi di dire che, nell’ignota coniugazione dei due sta se la si sa trovare, ciò che concreta l’intenzione dell’utopia della realtà, cioè il guadagno aspettato nell’assumersi il rischio.

 

Verso la “rivoluzione” nell’insegnamento nella Scuola di Architettura

Nel dire archetipo e zeitgeist ho usato parole di Rossi, premessa ai suoi disegni. Illuminate – come ho detto – dal principio motivazionale del progetto di Rogers che ha creduto fermamente nella scuola. La cartella – e il suo contenuto, come pure il progetto di pubblicazione – riguarda il tema chiave della scuola per l’insegnamento dell’architettura.

Da questo punto di vista, Rogers espone un principio indispensabile a capire la portata della “rivoluzione” che la modernità apporta alla comprensione del lavoro artistico. E si comprende meglio la svolta compiuta nel secondo dopoguerra, che porta l’attenzione sugli strumenti e sulle tecniche, cioè sui procedimenti del lavoro artistico che “produce” forme. Dovrei dire cose. Il rimando delle forme alla costruzione, reclama il rapporto con quanto le forme indicano, i due versanti dello spazio, dalla banda perimetrata da loro e dalla banda esclusa. E l’opposizione tra finito e non finito, tra aperto e chiuso.

In altra sede cercherò di porre questo tema al centro dell’analisi di qualunque opera moderna, per cogliere le personali versioni che gli autori dettero a questa tema centrale. Lo fecero nella temperie dell’inquietudine teorica nella scelta strategica, come dice Moneo che qualifica l’opera e cerca nel tempo proprio, finito, l’atto che produrrà l’opera esemplare – opera canonica, demarcazione del proprio tempo, dice Eisenman.

Forse ho detto perché la cartella è un tesoro. Assegna, un compito a chi opera nella scuola.

 

Postfazione.

Torno al tempo in cui fui scolaro. Ed al volto di chi era stato con me al di qua della cattedra. L’Utopia della realtà è stata innanzitutto un esperimento di scuola e una prova di insegnamento moderno. Nel momento in cui il maestro – all’apice della carriera accademica – ricopre la cattedra di “Elementi di Architettura”, lasciando quella di “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti”, deve volgere al progetto la “scienza di un’analisi del sapere pregresso”. E lo può fare solo come esperimento didattico, concretato da disegni di progetto moderno fatti dagli allievi che mettono alla prova il loro sapere. Questo vuole testimoniare la pubblicazione dal titolo “Utopia della realtà. Un esperimento didattico sulla tipologia della scuola.” (Milano. 1965, Leonardo da Vinci Editore) La volontà d’essere ricerca di progetto nella scuola. Ed Epifanio è un autore dell’esperimento dalla parte degli allievi, tra i migliori.

Torno, così, ai materiali conservati da chi mi fu compagno. Penso al giorno che li riconsegnai all’uomo brusco che covava un dolore nella schiena curva sulle gambe affaticate. Forse una delusione. Qui non vale alcuna lettura, ma la testimonianza stessa di chi sapeva di avere un tesoro che arricchiva chiunque potesse liberamente goderne, come lui stesso, ed io. Non dispero. Ho recentemente incontrato il figlio. Se ritroverà la cartella, nulla osta oggi alla pubblicazione.

 

Ernesto d’Alfonso

 


 

[1] E. N. Rogers, “Editoriali di Architettura“, Einaudi, Milano 1968, p. XII

[2] E. N. Rogers, Esperienza di un Corso universitario in “Utopia della Realtà. Un esperimento didattico sulla tipologia della Scuola Primaria. Problemi della nuova dimensione”, Leonardo da Vinci Editrice, Bari 1965, p. 14

[3] ibid., p. 16

[4] ibid., p. 20

[5] ibid., p. 21

[6] ibid., p. 23


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