“Trasparenza: Letterale e Fenomenica, parte II” [1]

da Colin Rowe, “As I Was Saying. Recollection and Miscellaneous Essays”, volume uno, 1956

L’entusiasmo per la luce e il paesaggio del Texas centrale di chi arriva per la prima volta ad Austin è probabilmente la stessa, che provò chi venne qui nella metà degli anni 50; a suo tempo Charles Moore me ne parlò tantissimo. Ma quaranta anni fa, quando alla suggestione Provenzale delle colline texane si poteva aggiunta la frenesia di provare un nuovo curriculum architettonico, si determinava una condizione altamente effervescente. Si trattava dell’influenza di paesaggi alla Cezanne (con tracce di Poussin) che fu in seguito iper-stimolata dalle influenze del Cubismo Sintetico e del De Stijl. Un po’ folle, forse? Suppongo che davvero lo fosse. Ad ogni modo, fu in questa condizione stimolante – paesaggi e luce, fotografie e disegni – che Robert Slutsky ed io abbiamo scritto questo articolo, “Trasparenza: Letterale e Fenomenica”; riguardo ciò, posso solo dire che, nonostante le parole siano in gran parte mie, le idee principali sono state di Robert.

In seguito, alle mie ingenue argomentazioni riguardo a Theo van Doesburg e a De Stijl, nell’ interazione con la Maison Domino di Le Corbusier, Robert ha aggiunto una importante precisazione. Come uomo di Fernand Léger e di Piet Mondrian, egli ha sostenuto il valore determinante della frontalità e la superiorità del piano del quadro nei confronti di ogni altra cosa. In altre parole, ha insistito sul fatto che la piattezza fosse stata il motore delle discussioni riguardanti la profondità; e, per come la vedo ora, fu così che la “Trasparenza” divenne per me la più importante base di tutto l’esperimento del Texas.

Fu un saggio piccolo ed esplosivo. Minava la supremazia dei mostri sacri – più esplicitamente di altre quella di Walter Gropius; e, essendo apparentemente intollerabile, è anche diventata impubblicabile. Scritta nel 1955 e inviata all’Architectural Review di Londra non fu considerata accettabile – lo posso solo supporre, da Nikolaus Pevsner; per il quale doveva essere una specie di veleno. In quell’ambiente Texano, così singolare, siamo stati incoraggiati a vedere troppo lontano;  come risultato, “Transparency I” giacque nell’oscurità fino alla sua pubblicazione, solo nove anni più tardi, attraverso i buoni uffici dell’ Università di Yale, su Perspecta 8 (1964).

Malgrado l’iniziale scoramento, tuttavia, Robert ed io abbiamo continuato a batterci (sebbene Robert non ha interamente approvato i risultati); ma “Transparency II” non ebbe grande successo per quanto riguarda la stampa. Scritto nel 1956, fu pubblicato – sempre da Perspecta – dopo quindici anni! E, molto prima di allora, ovviamente abbiamo rinunciato a scrivere un terzo articolo che è sempre stato parte del piano iniziale. Allo stesso tempo vi sono alcuni temi derivanti da “Transparency II” che ricorrono nelle pagine seguenti; e, in modo più esplicito, in “Palazzo Maccarani di Giulio Romano e la Griglia/Cornice/Reticolo/Rete del Sedicesimo Secolo” del secondo volume.

In un precedente articolo abbiamo elaborato, attraverso una discussione su parecchi dipinti Cubisti e post-Cubisti, alcuni significati che si riferiscono alla parola trasparenza[2]. Con il Bauhaus, Garches, e il progetto di Le Corbusier per il Palazzo della Lega delle Nazioni come principali punti di riferimento architettonici, sono state investigate due tipologie di trasparenza.

Si distinguono in letterale e fenomenica. Si è concordato che si può avere esperienza della trasparenza letterale in presenza di aperture vetrate o di una maglia metallica; non si giunti ad una conclusione certa, invece, sulle precondizioni della trasparenza fenomenica. Tuttavia, gli esempi di Garches e della Lega delle Nazioni hanno almeno suggerito le circostanze che potrebbero essere causa di questo modo di manifestarsi (della trasparenza); così si suggeriva che la trasparenza fenomenica poteva percepirsi nel momento in cui si scorgesse un aereo a poca distanza dietro un altro trovandosi sulla stessa traiettoria visuale del primo .

Di conseguenza, si è giunti all’ulteriore conclusione che tra le cause (o, se si preferisce, tra gli effetti collaterali) della trasparenza fenomenica si potrebbe trovare una predilezione per lo spazio ristretto o, quando questo non fosse possibile, per una stratificazione dello spazio profondo – in modo che si potrebbe fare esperienza del fenomenico, in contrasto con lo spazio reale, come poco profondo. Ma alcune di queste supposizioni sono di natura così tendenziosa e discutibile che in questo stesso articolo si propone di lasciarle temporaneamente da parte, e di concentrare l’attenzione, non sugli aspetti tridimensionali o spaziali della trasparenza fenomenica, ma per quanto sia possibile sulle sue manifestazioni bidimensionali – sulla trasparenza fenomenica come schema spaziale (/pattern).

Sostituendo l’edificio delle Nazioni Unite al Bauhaus e il grattacielo di Le Corbusier di Algeri alla sua villa a Garches, dovremmo ottenere un parallelismo tra le prime due che si mantenga approssimativamente simile al parallelismo tra le ultime due. Perciò il Segretariato delle Nazioni Unite potrebbe rappresentare un monumentale esempio di trasparenza letterale; e il grattacielo di Algeri dovrebbe rappresentare l’esempio classico dell’altra trasparenza che Gyorgy Kepes definisce come la capacità delle forme di compenetrarsi senza compromettersi visivamente l’una con l’altra[3].

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fig. 13  – Progetto per un grattacielo ad Algeri, 1938. Le Corbusier

I disegni pubblicati del grattacielo di Algeri (fig.13) mostrano una torre la cui organizzazione può essere interpretata in numerosi modi:

  1. L’occhio può essere attratto dalle tre bande orizzontali che dividono la struttura in quattro aree definite.
  2. Se le suddette bande sono trascurate o recedono in secondo piano, l’occhio può essere assorbito dallo schema cellulare dei frangi-sole, e si sentirà che gradualmente tale schema si estende dietro le bande orizzontali.
  3. Quando viene in evidenza che lo schema dei frangi-sole s’interrompe a sinistra, l’osservatore costruirà un’ulteriore figura che, mediando tra loro le due griglie frangi-sole, appare come una sorta di canale che taglia la facciata e connette i pilotis dei piani in basso con gli episodi della copertura.
  4. Una volta svelata la nuova figura da intrecciare con i tre piani centrali dell’edificio, l’occhio (o la mente) è forzato a trovare un’ulteriore spiegazione e l’osservatore è portato a vedere la composizione come una sorta di rivestimento a forma di E sovrapposto allo sfondo “neutrale” dei frangi sole.

Le dette quattro variazioni che sono state presentate, non seguono necessariamente l’ordine in cui se ne fa esperienza, e non sono state presentate per escludere ulteriori interpretazioni che potrebbero insorgere, hanno invece il semplice obiettivo di stabilire le figure base la cui presenza potrebbe essere individuata da un osservatore ingenuo[4].

Con l’Edificio delle Nazioni Unite e il grattacielo di Algeri come classici esempi di trasparenza letterale e fenomenica, sarebbe sicuramente possibile sostenere una classificazione dell’architettura moderna che si basi sulla presenza o assenza di queste qualità, ma fare questo implicherebbe un’analisi inutilmente tediosa. Le due interpretazioni che sono state fatte della parola trasparenza diventano chiare attraverso la comparazione di questi due edifici, e solo al fine di rinforzare questa distinzione si rende necessaria l’introduzione di un secondo parallelismo – uno tra l’Edificio dell’Equa Assicurazione sulla Vita di Pietro Belluschi a Portland, Oregon (fig. 14a), e il Centro Mile High di I. M. Pei a Denver, Colorado (fig. 14b).

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fig. 14a  –  Equitable Life Insurance Building, Portland, 1948. Pietro Belluschi

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fig. 14b  –  Mile High Center, Denver. I. M. Pei Associates

Quest’ultimo è evidentemente un esempio di trasparenza letterale. Diretto, concreto, una specie di lucida critica all’architettura di Chicago del 1880, mostra poche delle caratteristiche elencate da Kepes elenca come proprie della trasparenza (fenomenica). Mostra appena figure o sovrapposte o compenetrate , forse vi è una lieve contraddizione nelle dimensioni spaziali; è neppure  appaiono all’osservatore “percezioni simultanee di differenti dimensioni spaziali”[5]; e, fatta eccezione che per la piattezza della sua superficie, non ha significati ambigui. D’altra parte, l’edificio di Denver, che manifesta analogo rispetto per la maglia strutturale e che è allo stesso modo trasparente in senso letterale, mostra tutte le ambiguità citate in precedenza.

Dal confronto con il Mile High Centre, l’osservatore percepisce:

  1. Il reticolo orizzontale e verticale dato dalla maglia strutturale nera
  2. Un ulteriore sistema reticolato dato dalla sotto struttura blu, costituita dai montanti delle finestre e dagli architravi orizzontali o dai davanzali.
  3. Che ognuno di questi reticoli dona forza visuale agli altri, e che la loro sovrapposizione genera dubbi su dove realmente si trovino i solai all’interno dell’edificio.

Una distinzione aggiuntiva porta alla consapevolezza che la maglia strutturale nera giace interamente su un unico piano verticale, e perciò al colore nero è attribuita una specifica profondità spaziale. Allo stesso tempo si compie uno sforzo per attribuire una simile profondità spaziale al colore blu – che rivela che le componenti orizzontali della sotto struttura blu passano dietro la struttura nera, mentre quelli verticali le passano davanti. Dunque, dall’intreccio e sovrapposizione di due figure osservate contemporaneamente risulta una contraddizione spaziale ambigua; al fine di spiegare tale situazione, dapprima la struttura nera e poi la struttura blu diventeranno l’elemento dominante per l’osservatore.

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fig. 15  –  Villa Farnese, Caprarola. Giacomo da Vignola

Ad un certo punto l’osservatore accetterà l’esistenza della griglia blu nei due distinti layer spaziali che essa occupa, ma in un secondo momento cercherà di interpretarne il colore in accordo con la logica cromatica mostrata dalla griglia nera. Perciò arriverà a sopprimere la figura data dalla griglia blu e tenderà a vederla come completamente piatta, ma facendo ciò sarà forzato a vedere gli elementi appartenenti alla griglia nera, sia verticali sia orizzontali, come schiacciati in avanti, o all’indietro, o deformati dalla tensione che si viene a creare. Questo edificio è presumibilmente un esempio straordinariamente conciso di trasparenza fenomenica, ma a certi tipi di mentalità, l’elegante risultato post Miesiano rappresentato da questo edificio non suggerirà solo Chicago ma anche l’Italia. E’ indubbiamente sconveniente strappare edifici del calibro della villa Farnese a Caprarola (fig. 15) dal loro contesto culturale e proporre che vengano analizzati insieme con il più recente edificio per uffici di Denver. Le funzioni dei due edifici sono differenti; i sistemi costruttivi usati potrebbero difficilmente essere più dissimili; il contesto sociale, la tecnologia, i fattori economici, il contenuto che ciascuno comporta difficilmente potrebbe avere relazioni. Ma al momento non siamo interessati né alla funzione né alla struttura (come generalmente è intesa), né al contesto sociale, alla tecnologia, ai fattori economici, neppure ai contenuti, ma semplicemente al modo in cui questi edifici si presentano allo sguardo.

Messo di fronte a una delle due facciate identiche che danno sul giardino di Caprarola, l’osservatore riconosce un edificio organizzato secondo due piani principali, ed è in poco tempo consapevole di:

  1. L’articolazione primaria del muro stabilita dagli ordini e dalle loro rispettive trabeazioni;
  2. Un’ulteriore articolazione del muro che è causata da una specie di reticolo di sottili fasce di pietra;

Questo graticcio murario, che isola visualmente i pilastri dall’azione plastica delle finestre, ha due principali funzionamenti – come pilastro ausiliario che serve i ‘veri e propri’ pilastri e conferma l’andamento verticale della facciata come cornice che serve le bucature, indicando un sistema di pannellature che dona alla facciata una serie di marchiature orizzontali d’importanza quasi equivalente alle trabeazioni inferiori.

Così la sovrapposizione dei pilastri sulle bande porta (così come a Denver) ad un’incertezza sulla posizione del piano del solaio e ad un’ambiguità sull’unità base della facciata. In conseguenza ai pilastri ci sono due divisioni orizzontali principali; In conseguenza della testata proiettata nelle finestre sotto, e dei davanzali nelle finestre sopra, entrambe le quali andrebbero entrambi letti come bande, si deduce una tripartizione della facciata. La sovrapposizione e l’intreccio di questi due sistemi e l’oscillazione di significatività che da esse deriva può passare inosservata, in Caprarola così come in Denver; è evidente che l’osservatore si trovi al cospetto di una tessitura architettonica la cui trama e ordito appaiono immediatamente all’occhio ma i cui invisibili fili il suo istinto organizzativo mentalmente ricostruisce.

Ora se Caprarola, così come Denver sono esempi di trasparenza fenomenica, siamo portati a concludere che, dopo tutto, non sia una rivelazione ne nuova, ne tanto meno post-Cubista; e forse se dovessimo ripercorrere il percorso evolutivo della trasparenza letterale, che partendo dall’edificio delle Nazioni Unite – passando per monumenti significativi come il Bauhaus e il Palazzo di Cristallo – arriva alle gabbie di vetro e pietra dell’ultimo Medio Evo, potremmo notare in questi edifici qualche esempio di trasparenza fenomenica.

Nella navata di Saint Denis (fig.16), ad esempio – dove il triforio piuttosto che presentarsi come  unità autonoma, potrebbe sembrare un’intersezione tra il lucernario e il colonnato della navata – alcune volte è incorporato nel primo e in altri casi si presenta come proiezione della seconda.

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fig. 16  –  Abbazia di Saint Denis, vicino a Parigi, navata. Foto di Pierre Devinoy. 

 

 Pertanto quasi ogni palazzo veneziano medievale o del quattrocento presenterà caratteristiche simili, ad un livello maggiore o minore, e l’organizzazione della Ca’ d’Oro (fig. 17) si può considerare un esempio rappresentativo di questa tipologia.

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fig. 17  – Ca d’Oro, Venezia. Foto di Osvaldo Böhm.

“ Nella Ca d’Oro troviamo una facciata bipartita, in cui un centro è determinato dalle logge a sinistra e l’altro dal taglio delle tre finestre quadrate nel piano della superficie di muratura a destra. Ognuno di questi centri è dotato del controllo di aree nettamente contrastanti, chiaramente definite, e apparentemente simmetriche, le quali sono separate le une dalle altre da un pilastro sottile – quasi ricamato – che fungono da supporto virtuale per il trofeo araldico messo in mostra al secondo piano. Ma nello stesso momento in cui l’occhio scorge il trofeo si pone delle domande. Quest’ultimo mette a sistema lo spazio attorno a se e forza la visione di una simmetria tra le finestre tra le quali il trofeo è posto, in modo che queste due finestre siano lette insieme, e da questa lettura il pilastro diventa, non più una barriera tra due unità opposte ma l’elemento portante che interconnette queste unità e richiede una revisione dei presupposti iniziali e della natura di ciascuno di questi. Dal momento in cui se ne ha percezione, la valenza ambigua di questo pilastro indebolisce  la prima reazione che si ha al cospetto della facciata della Ca d’Oro; e, nel momento in cui l’elemento riceve maggiore attenzione, questo diviene ancora più problematico. Dato che il pilastro è simmetrico rispetto al secondo piano, si è portati a pensare che lo sua anche rispetto al primo; quando si scopre che questa supposizione è errata, quando si scopre che le due finestre che affiancano i pilastri a questo piano sono diseguali, allora si scorgono nuove variazioni figurative. Ora, un’attribuzione di simmetria a qualunque degli elementi in facciata appare ingiustificata, e ciascuna delle unità principali acquisisce l’abilità di allargarsi e assorbire la terza; in modo che mentre la parte destra e la parte sinistra della facciata sono in costante aumento e diminuzione, si costruiscono infinite e più acute relazioni. Dalla loro attivazione, si dovrebbe notare lo schema dato dal ritmo dei balconi aggettanti e il raffinato decoro del cornicione che, come una sorta di sinfonia in facciata, fornisce una serie di notazione musicale utile a intensificare l’attività polivalente del muro sottostante. Con questo e altri espedienti, orizzontale e verticale, configurazioni a ‘L’ e a ‘T’ si inseriscono rapidamente nell’intricata griglia formale, in modo tale che il primo elemento e poi gli altri funzionino come una sorta di ingranaggio. Quest’ultimo una volta compreso mette in moto un intero sistema di meccanismi reversibili ”

Le mutazioni che riguardano una struttura di questo tipo sono identiche a quelle che scaturiscono dalle meno eccentriche facciate veneziane, e quelle del Palazzo Mocenigo del XVI secolo (fig. 18) dovrebbero essere considerate ragionevolmente tipiche. Qui, nella facciata divisa verticalmente in tre parti, ogni divisione è simmetrica per se stessa, e la simmetria di ognuna è rinforzata al centro dalla triplice ripetizione degli archi e ai lati dall’elaborata cornice delle immagini araldiche che sono compressi tra le finestrature del piano nobile.

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fig. 18  – Palazzo Mocenigo, Venezia. 

Ad ogni modo, sotto un’intensa osservazione, le divisioni della facciata, prima apparentemente chiare, cominciano a cambiare . In primo luogo, si nota come la divisione centrale sia in grado di estendersi a discapito delle altre due; secondariamente, quando le parti laterali mostrano una tendenza a infiltrarsi, a scorrere dietro le insenature del disegno centrale; mentre, in accordo con le nozioni iniziali, gli elementi costitutivi della facciata intessono un’ulteriore serie di relazioni.

Ad un certo punto le finestre più esterne si comportano come fessure isolate che enfatizzano le estremità del muro; ad un secondo livello di lettura la stessa qualità di fessure viene trasferita alle finestre ad arco centrali; e, immediatamente, il trofeo araldico assume un’importanza fondamentale come l’elemento legante tra gli sviluppi periferici e quelli centrali. In questo momento la facciata è dominata da un sistema a doppia ‘H’; ma, nel momento in cui questa sotto struttura è messa in luce, la disposizione sopra citata viene sostituita da un elemento cruciforme derivante dallo sviluppo plastico del piano principale e dall’associazione degli archi centrali sovrapposti. Ma il processo di addizione e sottrazione continua, poiché i piani inferiori e superiori del palazzo rendono visibile la pannellatura del muro, e dal momento che il piano nobile non sostiene la pannellatura, da questa discontinuità di elementi emerge un’altra figura. Come in precedenza il trofeo araldico funge da connessione tra il centro e l’estremità della facciata, ora le finestre centrali del piano principale diventano elemento connettivo che integra le due aree.

Queste differenti letture astratte da Palazzo Mocenigo non esauriscono la possibilità di letture ulteriori; ma sono in se stesse una sufficiente descrizione della molteplicità funzionale di cui è dotata ogni parte del progetto.

Sostanzialmente l’edificio ha origini Veneziane; ma alcune caratteristiche ci obbligano a prendere in considerazione la presenza di altre influenze; perciò, al piano più alto, poiché si sospettano delle origini Michelangiolesche nei profili dei frontoni delle finestre, qualcuno potrebbe anche credere che qualcosa della natura esplicita della sovrapposizione e intreccio delle figure derivi dalla stessa fonte.

Certamente sia nei modelli sia nei disegni della proposta di Michelangelo per la facciata di San Lorenzo (fig.19) tutto ciò che poteva essere oscurato nelle sfumature veneziane tradizionali del Palazzo Mocenigo diventa ora chiaro ed evidente; per questo motivo San Lorenzo necessita di un minor commento introduttivo. Una superficie muraria modellata attraverso sottili rilievi si articola attraverso uno scheletro di colonne e pilastri, un susseguirsi di modanature, cordoli, architravi e un frontone.

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fig. 19  – San Lorenzo, Firenze: Schizzo di Michelangelo di un’ipotesi di facciata e plastico della stessa.

E’ tutto molto ovvio, ma diviene in questo momento necessario notare la trasposizione cui si presta questa organizzazione scheletrica. Perciò, per permettere all’occhio di viaggiare lateralmente attraverso il progetto, quattro elementi verticali – i pilastri e le colonne accoppiati – si possono interpretare come elementi che contribuiscono alla formazione di una griglia, definiscono alla formazione di una griglia e definiscono tre intervalli spaziali più ampi (fig.20a).  Quasi subito, questa informazione è soggetta a una “correzione”. Questi tre intervalli spaziali, anche se possono apparire identici in larghezza, sono in realtà molto lontani dall’esserlo. Lo spazio centrale è distintamente più stretto di quelli laterali, e come conseguenza, e in collaborazione con il frontone centrale, si indaga sulla sovversione della lettura iniziale. Il gruppo di pilastri e colonne interni si sgancia da quello più esterno. Questi smettono di far parte della griglia evidente e “neutrale”. Al contrario iniziano ad apparire come contribuenti ad una situazione gerarchica e accentrata: pertanto, al posto di una interpretazione della facciata come quadripartita, si sviluppa in questo momento una divisione tripartita (fig.20b). Analogamente, se l’occhio si lascia trasportare su e giù per questa superficie succede qualcosa di analogo. Qui il punto di interesse sta nel contrasto primario tra un bassorilievo e un  altorilievo.

Le colonne al piano di sotto si trasformano in pilastri in quello di sopra, e, in questo modo, si rinforza una divisione orizzontale basilare (fig. 20c). Ma questo, di nuovo, si rivela un’interpretazione che non può essere sostenuta. Le aree in cui vi sono enfatizzati gli alto e bassorilievi sono separate da un contestato territorio (è il solaio di uno o il basamento dell’altro?) che progressivamente esige la sua autonomia e che, di conseguenza, obbliga già ad effettuare un’ulteriore revisione (fig. 20d).

Ma le svariate e profonde relazioni tra le figure sono così innate in questa organizzazione che insistere su un’interpretazione iniziale o dominante sarebbe piuttosto arbitrario; e, di conseguenza, piuttosto che provare a imporre una personale visione delle continue oscillazioni di aspetto di San Lorenzo, sarebbe forse più opportuno semplicemente alludere fare allusione ad alcune delle figure più rilevanti che questo mostra.

TRANSPARENCY_BASE_FIG 20a TRANSPARENCY_BASE_FIG 20b

fig. 20  – San Lorenzo: varie interpretazioni della facciata

Queste includono:

  1. Una serie di fluttuanti forme ad ‘H’ che sono evidenziate dall’intersezione tra le strette insenature e il “basamento attico” (fig.20e);
  2. Un’ulteriore figura ad ‘H’ evidenziata dalla fascia laterale di nicchie, targhe, e l’edicola centrale – “finestra” – sul muro superiore, e dall’equivalente banda e bucatura data dalle porte e finestre sul muro inferiore (fig. 20f);
  3. Una serie in espansione di figure cruciformi che derivano dall’intersezione tra il “basamento attico” e l’insenatura centrale (fig. 20g);
  4. Uno schema a scacchiera che si crea tra i tre basamenti delle porte esterne e la “finestra” superiore (fig. 20h);
  5. Una scacchiera invertita che si sovrappone a quella precedente e che deriva dalle due targhe circolari e dalle nicchie ad esse collegate (fig. 20i);
  6. Una figura a ‘T’ generata dall’effetto del basamento superiore e dello sviluppo ad altorilievo in basso che include una sorta di riflesso del volume dell’edificio che giace dietro ed è presumibilmente un residuo di studi precedenti (fig. 20j).

Una casuale osservazione di San Lorenzo rivela l’immanenza (sin. ‘concretezza’) di almeno queste configurazioni; ma un’analisi più acuta può rendere visibili modulazioni più sottili e nascoste. I basamenti della “finestra” superiore e delle porte esterne potrebbero ancora essere notati. Questi stabiliscono un triangolo d’interessi: e, dal momento che gli elementi visuali che compongono questo triangolo sono quasi uguali, c’è una tendenza ad attribuirgli una dimensione corrispondente. Ad ogni modo, poiché uno di questi elementi è più piccolo degli altri, c’è un’ulteriore tendenza ad presupporre che si trovi ad una distanza maggiore dall’occhio; e pertanto, quando lo si osserva congiuntamente alle due porte in basso, il minor dimensionamento della “finestra” centrale crea una singolare tensione tra l’interpretazione delle linee orizzontali e verticali sul piano del muro. Fornendo un accenno di profondità, questa impressione suggerisce che aldilà questo piano verticale e visibile attraverso di esso si trovi un arretramento prospettico o un piano inclinato cui ciascuno di questi tre elementi è connesso (fig. 20K, fig.20l).

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fig. 21  – Piet Mondrian, Victory Boogie-Woogie, 1943-1944 (incompleto). 

Con quest’ultima trasparenza, quasi Cubista, introdotta da Michelangelo, non vi è necessità di continuare un’analisi specifica su San Lorenzo. Dovrebbe essere evidente che questi fenomeni che abbiamo esaminato sono di un livello quasi comparabile rispetto a quelli che potremmo trovare in molti motivi moderni – ad esempio nei dipinti più recenti di Mondrian; e sebbene sostenere un parallelismo tra una facciata di Michelangelo e un dipinto di Mondrian potrebbe sembrare frivolo come un paragone tra Caprarola e il Mile High Center, quasi ogni dipinto rappresentativo della serie Boogie Woogie di Mondrian potrebbe giustificare questo parallelismo. Perciò, chiunque decida di esaminare accuratamente l’incompleto Victory Boogie Woogie del 1943-1944 (fig. 21) sarebbe costretto ad estrarne una serie di trasparenze – di triangoli, forme a croce, a ‘T’ e a ‘U’ di cui la composizione trabocca in un modo simile a San Lorenzo[6].

Ovviamente dissimili per quanto riguarda il loro contenuto e le loro aperte manifestazioni formali, sia il  Victory Boogie Woogie che San Lorenzo sono per lo meno simili nel sottrarsi ad un’accurata descrizione di quello che sono. In San Lorenzo una composizione distintamente simmetrica e monocromatica è satura di letture alternative. In  Victory Boogie Woogie come composizione asimmetrica ricava l’essenza della sua frenesia da colore, congestione, e dalla natura simmetrica delle sue singole parti. Le interpretazioni di San Lorenzo sono in gran parte evidenti; quelle di Victory Boogie Woogie sono meno palesi. Le oscillazioni della facciata di Michelangelo sono improvvise; quelle di Mondrian sono meno violente. In Victory Boogie Woogie le diverse aree bianche si addensano gradualmente per lasciare spazio alla figura cruciforme centrale; e questa figura lentamente si dissolve prima di una nuova interpretazione in cui l’asse verticale si definisce come elemento dominante. Ma sia nel dipinto sia nella facciata può essere sottolineata una tendenza dei diversi elementi a costruire, a coordinarsi l’un l’altro, ad amalgamarsi – mediante la vicinanza o una figura in comune – in configurazioni più grandi. Perciò in Victory Boogie Woogie, mentre le aree rosse e quelle blu distribuite sulla tela offrono due diverse costellazioni*, i rossi e i blu adiacenti mostrano una tendenza ad allontanarsi da questi sistemi per unirsi in una serie di interi più estesi. In San Lorenzo si possono notare le stesse tendenze. Lì, dove si trovano una costellazione di aree rettangolari e colonne e un’opposta costellazione di elementi circolari e semi-circolari, si formano continue coalizioni tra gli elementi contigui di ogni sistema.

Di nuovo la facciata e il dipinto mostrano una disposizione di oggetti frontalmente allineati che sono disposti in uno spazio altamente compresso; entrambi mostrano come questi oggetti funzionino come una serie di livelli in rilievo per un’ulteriore articolazione dello spazio; ed entrambi mostrano una struttura sincopata da una interruzione a intermittenza – nel primo caso di elementi architettonici convenzionali , nel secondo di piccoli quadrati colorati.

Nel progetto di Michelangelo il piano del muro che fornisce il supporto – cioè lo sfondo* ‘negativo’ su cui questi singoli elementi sono disposti – ha la capacità di interpretare un ruolo opposto – cioè di diventare lui stesso un elemento ‘positivo’ o una serie di elementi ‘positivi’; e nel dipinto di Mondrian le aree bianche si comportano alla stessa maniera.

Perciò in ogni elementare interpretazione di Victory Boogie Woogie i rettangoli bianchi sembreranno rivelare  uno sfondo essenziale, una superficie retrostante che supporta i gialli, rossi, blu e grigi; ma, come il piano del Muro di Michelangelo, può smettere di essere recessivo e, esercitando una pressione sulle figure che inizialmente sembrava racchiudere, può diventare – possedendo molta tensione – un elemento o una serie di elementi come quelle.

Non permettendo all’occhio di penetrare più in profondità, questo piano retrostante inibisce la scoperta di qualunque figura in profondità, e perciò in ogni caso si potrebbe dire che la sua presenza disturbi le possibilità di un fulcro centrale. Ad ogni modo coniugando lo spazio della tela e della facciata con una struttura laterale, questo piano funziona come generatore di intensità periferico e sostituisce ogni punto focale con una serie di episodi distinti. Attraverso ciò esso acquisisce una complessiva tensione di superficie, diventando una sorta di membrana fortemente tesa che agisce sui diversi elementi che supporta e a sua volta riceve una reazione dagli elementi stessi. Permeata di questi elementi con tensione, li spinge ancora più avanti; e perciò, attraverso la costruzione spaziale che crea, questo piano retrostante serve sia come catalizzatore sia come neutralizzatore delle figure successive di cui l’osservatore fa esperienza.

Paragoni, parallelismi, e analisi come questi potrebbero protrarsi per un tempo indefinito, ma forse è stato detto abbastanza per indicare consistenza delle manifestazioni che Moholy e Kepes hanno riconosciuto come trasparenza nelle opere contemporanee[7]. In tutti i casi la loro trasparenza – la nostra trasparenza fenomenica – ha luogo all’interno di un opera d’arte altamente concettualizzata e intellettualizzata; e ad ogni modo è stato il prodotto di un’attenzione costante alla struttura formale della più impietosa e sofisticata logica visuale. Questo vale per quanto riguarda il contesto generale in cui la trasparenza fenomenica sembra collocarsi; ma per Moholy la trasparenza di significati a cui reagisce nei testi di James Joyce è un metodo per costruire una completezza ricca e variegata.  Questo è l’esatto analogo della trasparenza descritta dal Cubismo – e questa trasparenza, che sia letterale o fenomenica, è da lui concepita per essere una specie di spazio-tempo, che è misticamente reso valido dalle scoperte della scienza e che, come unico mezzo per raggiungere l’integrazione culturale, si presume essere inerente con tutta la filosofia (ethos) del ventesimo

Ma se esiste una qualunque sostanza nelle ricerche precedenti, allora la trasparenza non è esclusivamente uno sviluppo post-Cubista che lui (Moholy ndr.) suppone essere indipendente dalla fisica moderna o da Minkowsky; non è solo una nota distintiva del ventesimo secolo; e non ha una necessaria correlazione con un’imminente integrazione culturale. Infatti potrebbe essere sostenuto quasi l’opposto; e San Lorenzo, il Palazzo Mocenigo, Caprarola, al massimo possono essere presentate come l’inquietudine Manierista, come le immagini di “uno stile discordante, imbarazzato, frustrato”; come indici di “un periodo di dubbio assillante, e rigorosa applicazione di dogmi non più auto-dettati”; come gli effetti esterni di un’inquietudine mentale, disequilibrio e scissione[8].

Ora, che queste due interpretazioni largamente separate di due fenomeni strettamente connessi – uno che persiste sulle virtù, l’altro sulle incertezze della trasparenza fenomenica – debbano coesistere fianco a fianco senza alcun imbarazzo non deve essere difficile da comprendere. In questo primo caso, è noto il limite mentale di molti architetti moderni nei confronti della storia; e, nel secondo, una delle più palesi limitazioni è data dalla riluttanza di molti storici dell’arte ad approfondire la critica dei risultati del modernismo. Ma se possiamo permettere che ciò accada in tutti i casi che abbiamo discusso, la metodologia che eleva figure fluttuanti per dargli un rilevo ambiguo è un denominatore comune condiviso da tutti, allora diventa una questione urgente scoprire come, tenendo conto di due valutazioni così radicalmente diverse di questo comune denominatore, sia possibile in qualche modo rendergli giustizia.

Qualcuno potrebbe certo suggerire che un metodo di organizzazione comune non comporti necessariamente un’identità di contenuto psicologico; che la ricerca della trasparenza fenomenica sia sensato, creativo e responsabile (un’idea mutuata dall’architettura moderna); ma se questa proposta è inaccettabile, allora andiamo incontro ad un serio e decisivo dilemma.

La tentazione sarebbe di sfuggirgli; e si presentano numerose e attrattive vie di fuga.

Pertanto, potremmo, ad esempio:

  1. scegliere di negare l’esistenza della trasparenza fenomenica come manifestazione visuale;
  2. stigmatizzare la percezione della trasparenza fenomenica come prodotto di una sensibilità iper-estetica o asserire che il suo perseguimento non è altro che una deriva formale dell’architettura e pittura contemporanea; oppure
  3. attribuire una proto-modernità a Michelangelo, Vignola, e il resto o insinuare che l’architetto che si serve della trasparenza fenomenica sia inconsciamente manierista.

La via di fuga n°1 è una strada trafficata. La via di fuga n°2 è una sorta di autostrada che permette ai suoi viaggiatori la piacevole illusione che in qualche segregato cul-de-sac Picasso, Braque, Gris, Léger, Mondrian e Le Corbusier sono tutti coinvolti in un inutile rito esoterico. La via di fuga n°3 ci trascina in una sinuosa deviazione verso un terreno linguisticamente pittoresco. Potremmo condannare la scelta della n°1 in quanto irresponsabile e miope; la n°2 dovrebbe essere scartata in quanto filistea (filisteo n.m.; persona che ha mentalità grettamente borghese, misoneista e retriva); mentre la n°3 potremmo dire che non è di nessun aiuto. E’ una specie di conquista del problema per definizione, che è, per niente una conquista, se abbiamo la libertà di attribuire una proto-modernità – o un deutero-manierismo – a tutti in modo indistinto, quindi rendiamo assurda la nozione di modernità e sovvertiamo stravagantemente le categorie della storia. Una volta scartate tutte le vie di fuga, il problema rimane dunque oscuro, irrisolto – per lo meno nelle sue più ampie implicazioni. Comunque, nelle sue ripercussioni più strette, la mera esistenza del problema suggerisce quantomeno che la trasparenza fenomenica ha un fondamento nel pensiero comune e implica che, da parte nostra, ci sia una qualche reazione archetipica nei suoi confronti.

Considerando la trasparenza fenomenica in questo modo, ad un livello interamente concettuale, non è possibile sottovalutare la psicologia della Gestalt, dal momento che gli psicologi della Gestalt, nella loro analisi della percezione, sembrano essersi preoccupati solo di una delle questioni fondamentali per ogni tema di questa problematica. “Configurazione” “figura-sfondo”, “contorno comune”, “prossimità”, “costellazione” – qualche volta inconsciamente e consciamente il nostro vocabolario è stato saturato di parole appartenenti alla Gestalt, proprio per via dell’adeguatezza dei suoi termini. Molto rapidamente, il grattacielo di Algeri, l’edificio di Denver, Caprarola, la navata di Saint Denis, la Ca’ d’Oro, il Palazzo Mocenigo, San Lorenzo e Victory Boogie Woggie sembrano sofisticate orchestrazioni dei curiosi piccoli diagrammi che si possono trovare in abbondanza sparsi in ogni trattato sulla Gestalt [9]; e, se in presenza di questi diagrammi possiamo superare la nostra prima attrazione rispetto a quanto sembra una discrepanza tra una psicologia della percezione altamente intellettuale e i suoi ingenui esempi visuali, potremmo riconoscere questo come prova, nella sua forma più primitiva, delle circostanze fondamentali che hanno permesso lo sviluppo delle complicate strutture che abbiamo analizzato.

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fig. 22  – Lettura figura-sfondo di un vaso o di due profili gemelli

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fig. 23  – Croce maltese

Pertanto, se non veniamo scoraggiati dalla combinazione di art-nouveau e gli aspetti “credici-o-no” (believe-it-or-not) rappresentate nella fig. 22, questa può essere accettata come rappresentazione di una basilare ambiguità figurativa in cui ci si imbatte di sovente. “Normalmente si vede un banale vaso; è solo dopo un periodo di attenta osservazione che si riconosce il profilo di due volti. Quello che una volta era sfondo diventa figura e vice-versa”[10]. Similmente nella fig.23 sono indotte condizioni identiche. Qualcuno vede una croce maltese sovrapposta ad un ottagono bianco; ma, una volta notata la qualità spaziale degli otto triangoli che la compongono, la sensazione data da questo diagramma di ribalta. Le eventualità di questa “trasfigurazione” possono essere esposte con molta più sottigliezza e forse con molta più rilevanza architettonica (fig. 24): la figura mostra un gruppo di rettangoli ma “la figura può anche essere interpretata come due H con alcune linee interposte”. Queste H esistono  ma occorre fare uno sforzo per vederle; e l’immagine è stata assemblata dai Gestaltici per provare esattamente questo – che anche se l’H esiste, “malgrado la nostra vasta esperienza della lettera H, è l’articolazione dell’oggetto (ad esempio i rettangoli) che determina quello che dovremmo vedere.”[11]

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fig. 24  – Varie letture di un diagramma della Gestalt

Ma attraverso modificazioni minori, la coesistenza delle H e dei rettangoli si fa alquanto evidente, di modo che, nella fig. 24a siamo consci di entrambi. Qui, rimuovendo le chiusure superiori e inferiori dei rettangoli, le figure ad H diventano completamente esposte, ma i rettangoli stessi continuano a porsi come interferenze inevitabili che l’osservatore costruisce in ragione della lunghezza identica, della prossimità e della similitudine degli elementi che compongono la figura. L’ossessione per il rettangoli porta a concentrarsi sulle quattro linee che costituiscono i loro assi orizzontali; e, a causa della loro identica direzione, sono percepiti essenzialmente come parti visibili di una linea continua che si presume attraversi una materia solida la cui area coincide con quella dei tre rettangoli.  Perciò, nello spezzare questa linea continua, non solo introduciamo un’implicazione di profondità in una superficie bidimensionale ma anche la supposizione dell’esistenza dei rettangoli riceve conferma.

Nella figura 24b, in seguito ad un’ulteriore modifica applicata alla stessa figura, le attività sopracitate diventano ancora più esplicite. In questo diagramma il comportamento delle linee orizzontali si fa più chiaro. L’osservatore è sia portato ad individuare quattro linee orizzontali, ognuna delle quali si comporta come traversa della lettera H, sia a completare altre due figure ad H; o, in alternativa, è portato a vedere una linea orizzontale interrotta che appare come una spaccatura che corre nel mezzo di un piano di sfondo; ma in ogni caso attraverso una interpretazione automatica dell’oggetto presentato, l’osservatore è indotto a trovare alla figura una sfondo o ad incorniciarla in un’area. All’interno di questa area le H si comportano allo stesso tempo come elemento di disimpegno tra i rettangoli dominanti e come figura dominante essa stessa; mentre, quando la sensibilità dell’osservatore nei confronti della figura aumenta, diventa evidente che si devono costruire anche rettangoli minori e che si deve accettare la presenza di altre due H, attraverso l’aggiunta di due elementi verticali ulteriori (fig. 24c).

Non è necessario dire altro per dimostrare la possibilità di applicare quest’ultimo diagramma alla facciata di San Lorenzo o a quella del grattacielo di Algeri; è ugualmente evidente che il tipo di attività percettiva che il diagramma comporta è dello stesso ordine di quello che si esercita ad un livello molto superiore, con tempi di osservazione molto superiori, in un dipinto di Léger o Mondrian; e in tutti questi casi il fenomeno “figura-sfondo” qui esemplificato può essere considerato il prerequisito essenziale della trasparenza.

Secondo la teoria della Gestalt, mentre la figura è riconosciuta come figura in ragione della sua chiusura, compattezza, densità e articolazione interna e mentre lo sfondo si riconosce come sfondo dalla mancanza di queste qualità, sebbene possa ad un primo sguardo apparire anonimo, non è ne subordinato ne passivo. Come condizione che impone una relazione comune su tutto ciò che succede, è anche un recinto contenente figure che esso mette in risalto; e queste, in virtù dell’importanza di cui vengono dotate, reagiscono allo sfondo e lo rivestono di significato figurativo.

Qui si ottiene nella relazione figura-sfondo una doppia funzione che riguarda entrambe le componenti. Ognuna può essere se stessa e il suo opposto; di modo che ogni caso specifico di figura-sfondo si presenti come una condizione di esistenza le cui componenti sono allo stesso tempo il risultato e la causa, una struttura che diventa rilevante nel momento in cui si verifica un’azione reciproca tra il tutto e le sue parti, e – si potrebbe dire – un’area di riferimento, che qualifica e allo stesso tempo è qualificata dagli oggetti che le si riferiscono.

In esempi complicati di figura-sfondo come quelli che abbiamo esaminato, lo sfondo contiene svariate figure, e queste si comportano come uno sfondo secondario che funge da supporto ad configurazioni ulteriori. La Gestalt sostiene che l’osservatore organizzi gli stimoli visuali discreti secondo certe logiche, che sono date da fattori di prossimità, similitudine, direzione, chiusura, esperienza, “buona curvatura”, “buona Gestalt”,  “sorte comune”, “gruppi oggettivi” e l’intraducibile “Prägnanz”[12].

“La teoria della Gestalt” è stato affermato “non sostiene che i sensi trasmettano materiale amorfo a cui viene imposto un ordine dalla mente umana” ma attribuisce ai sensi il potere di distinzione, rifiutando “di riservare la capacità di sintesi a più alte facoltà della mente umana” e enfatizzando “i poteri creativi”, “l’intelligenza del processo sensoriale periferico”.  In altre parole la Gestalt concepisce l’atto della percezione non come una semplice relazione stimolo-risposta ma come un processo che può essere descritto come segue: “Costellazione di stimoli – organizzazione – reazione ai risultati dell’organizzazione”[13]. Inoltre, la Gestalt sostiene che l’attività mentale e il comportamento biologico siano soggetti alle stesse leggi, che la “buona forma” sia una qualità della natura, sia organica che inorganica, in modo che “il processo organizzativo attivo nella percezione rende in qualche modo giustizia all’organizzazione esterna nel mondo fisico”[14]. Ma supponendo che i sensi siano dotati di ‘intelligenza’, con poteri di distinzione, con capacità organizzativa; e supponendo che la fisica e i suoi processi siano governati dalla stessa regola. In loro stesse le ipotesi sembrano avere ben poco a che fare con quello che sembra essere l’eccessivo interesse della Gestalt per la trasparenza fenomenica, che la Gestal riconosce sotto una varietà di nomi come “identità fenomenica”, “doppia rappresentazione” e “formazione duale”[15].

L’individuo è incline a considerare questo interesse come non più di una riflessione di uno stile intellettuale che ha caratterizzato la prima metà del XX secolo, a vederlo per esempio simile all’interesse critico letterario per l’ambiguità svelata dagli studi di William Empson in Seven Types of Ambiguity, all’interesse storico-artistico suggerito dall’interpretazione del XVI secolo, all’interesse artistico sotteso dal Cubismo analitico e da molta della produzione dell’architettura moderna. Ma sebbene la ricerca iniziale della Gestalt sulle ambiguità figurative sia contemporanea al periodo in cui il Cubismo analitico ha fatto della trasparenza fenomenica un principale metodo di composizione, deve essere riconosciuto che qualcosa del ‘gusto’ della Gestalt per le ambiguità figurative sia correlato alla sua enfasi sul campo.

Per la Gestalt l’esistenza di un campo (visivo ndr.) è il prerequisito di tutte le esperienze percettive. La consapevolezza del campo deve precedere la consapevolezza della figura; e la figura in se stessa non si può concepire se isolata. In questo articolo l’attenzione si è concentrata solo sui campi visuali, e la Gestalt sembra aver favorito un esempio del campo visivo; ma ovviamente tale campo varia in base alla natura degli oggetti e/o delle percezioni coinvolte. Ad esempio, nel caso della comprensione di un albero, il campo visivo può esserci dato da una montagna, o un lago, o un muro di una casa, o un infinito numero di altre cose; nel caso della comprensione di una metafora poetica – in se stessa un campo – il campo più vasto potrebbe essere un sonetto; in storia, una certa epoca può essere dotata di “proprietà di campo” l’idiosincrasia delle varie figure che essa supporta. Ma in tutti questi casi è concepito come qualcosa di più della somma totale degli elementi che comprende. E’ geneticamente prioritario per loro. E’ una condizione a loro intrinseca e la ragione del loro comportamento.

Potrebbe ora essere possibile vedere che l’interesse della Gestalt per l’ambiguità non è meramente arbitrario. L’instabile, equivoco fenomeno di figura-sfondo, le cui oscillazioni possono essere sia lente sia repentine, portano la matrice di supporto, il campo, in rilievo. Figura-sfondo è figura-campo portato alla massima espressione.

E’ il campo inteso come positivo; e perciò per la Gestalt è la sintesi finale, la concentrazione dell’idea di campo.

 

traduzione di Annalisa Di Carlo

 

 

[1] Scritto con Robert Slutzky, 1956; pubblicato per la prima volta su Perspecta, n° 13-14 (1971)

[2] Wilhelm Fuchs, On Transparency in W.D. Ellis, ed., A Source Book of Gestalt Psychology (Londra, 1938), 89.

[3] Gyorgy Kepes, Language of Vision (Chicago; P. Theobald, 1944), 77.

[4]  “Intervento delle sensibilità plastiche. Tutto sembra essere implacabilmente controllato dalla successione di requisiti razionali. Il piano era rigorosamente simmetrico. Ma attraverso un ulteriore tracciato della sezione aurea la facciata è diventata asimmetrica. La forma sembra spostarsi a sinistra e poi traslare a destra. Risponde alla duplice esigenza del contesto, la scogliera, il mare.” Le Corbusier Francois Pierrefeu, The home of man (Londra, The Architectural Press, 1948). E’ in questi termini che Le Corbusier descrive le figure fluttuanti date dal grattacielo di Algeri.

[5]  Gyorgy Kepes, Language of Vision (Chicago; P. Theobald, 1944), 77. 20

[6] Il diamante è il risultato di un quadrato rotato, le cui diagonali, che precedentemente davano l’idea di dover esser lette come vettori che inducono una prospettiva recessiva, ora diventino una armatura squadrata che irrigidisce quel piano e dona ai punti, più che agli angoli, la capacità di comportarsi come termine per l’occhio dell’osservatore. In questa prestazione un piano perfettamente frontale, senza gravità, galleggiante, si stanzia esercitando pressione da dietro nei confronti di ogni figura cromatica che vi si appoggia.

[7]  Laszlò Moholy-Nagy, Vision in motion (Chicago; P. Theobald, 1947), 350; Kepes, Language of Vision, 77.

[8] Per questa citazione vedi Nikolaus Pevsner “The Architecture Mannerism” in The Mint (1946), 132, 136. Questi potrebbero essere considerati come ragionevolmente rappresentativi di una proposta ricevuta.

[9] Kurt Koffka, Principles of Gestalt Psycology (New York; Harcourt, Brace and Company, 1935); Wolfgang Kohler, Gestalt Psycology (New York: H. Liverlight, 1929); George W. Hartmann, Gestalt Psycology (New York: Ronald Press Company, 1935); Ellis, A Source Book of Gestalt Psicology.

[10] Hartmann, Gestalt Psycology, 25.

[11] Ellis, Source Book of Gestalt Psycology, 58.

[12] vedi Werthmeier, “Laws of Organization in Perceptual Forms”, in Ellis, A Source Book of Gestalt Psycology, 71.

[13] Hartmann, Gestalt Psycology, 100.

[14] Rudolf Arnheim, Art and Visual Perception (Berkeley: University of California Press, 1954), 73.

[15] “Phenomenal Identity”, Ellis, A Source Book of Gestalt Psycology, 147; “double representation”, Koffka, Principles of Gestalt Psycology, 178; “duo formation” ibid., 178.

 

 

 


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