Nei precedenti editoriali abbiamo posto l’attenzione sull’analisi critica del processo creativo con l’obbiettivo di isolare le quattro azioni generative (primarie) della forma:

Pensare : Vedere = Rappresentare : dar Forma.

Le riportiamo oggi quale promemoria, filo conduttore di un ragionamento attraverso il quale intendiamo approfondire le relazioni complesse che legano la quaterna. Il compito ci rendiamo conto è impegnativo, cercheremo di farlo consapevoli che l’oggetto del nostro “cercare” rimane comunque e sempre la disciplina dell’architettura nella sua dimensione concreta. Ma è proprio nell’atto del tendere al concreto che essa, necessariamente, rimane per un tempo indefinibile “a priori” sospesa nel “virtuale”, ed è li che in continuo conflitto si nutre di discipline diverse, in un turbinio di rarefazioni e compressioni, decomponendosi e ricomponendosi fino al raggiungimento del suo stato di equilibrio.

Cercheremo qui attraverso una operazione di “montaggio letterario”, di ricostruire una linea trasversale di coerenza metastorica tra diverse discipline: pittura, cinema, letteratura e architettura, con l’obbiettivo di rintracciare in esse, ove possibile, il denominatore comune dei vari processi creativi tra astrazione e immaginazione, rappresentazione e concretezza, sostenendo che esista un unico “processo creativo” analogo, trasversale a tutte le espressioni creative del genere umano; nel fare questo terremo sempre ben chiara sullo sfondo l’architettura, essendo noi comunque sempre convinti che in essa tutte le arti coincidano.

Il prodotto è una narrazione nella quale la somma di contributi diversi, provenienti da testi riconducibili alle varie discipline, mira a ricostruire pur nelle differenze, una linea ci congruenza reciproca. Dice Lessing a tale proposito: “la pittura ha per oggetto di imitare le forme esteriori dei corpi, la poesia rappresenta non tutte ad un tempo ma l’una dopo l’altra le parti di un’azione o di qualsiasi altra cosa; la pittura adopera figure e colori nello spazio, la poesia suoni articolati nel tempo; per cui diversamente dalla poesia, temporale, dinamica che può narrare azioni in successione nel tempo; la pittura, spaziale, statica, nelle sue rappresentazioni coesistenti non può servirsi che di un momento unico dell’azione; perciò deve cogliere il momento supremo, dal quale si intenda meglio il precedente e il seguente”.[1] “Per un edificio, invece l’immobilità è un’eccezione: il nostro piacere viene dal camminarci intorno facendo in modo che l’edificio si muova a sua volta, godendo di ogni combinazione delle sue parti mentre queste variano, la colonna gira, le profondità indietreggiano, le gallerie scorrono: la fuga di migliaia di visioni”.[2]

Il movimento del corpo è allora l’elemento di connessione tra tempo e spazio, capace di generare sequenze percettive, prospettive sovrapposte capaci di distendere nel tempo figure e colori dello spazio. “L’esperienza dell’architettura possiede qualità di assoluto coinvolgimento dal regno ottico al mondo tattile manifestandosi sotto ogni aspetto percettivo, la sintesi di primo piano, piano intermedio, sfondo, insieme a tutte le qualità soggettive dei materiali formano la base di una percezione completa. L’espressione di un’idea originaria di fusione tra soggettivo ed oggettivo, un collegamento complesso tra tempo , luce, materiale e dettaglio crea un tutto cinematico[3]. L’architettura si impone dunque come arte sintetica, capace di integrare la forza della percezione e l’intreccio del romanzo.

L’analogia segnala una logica di rimandi incrociati: il cinema ha tratto dall’architettura, dalla città, dalle immagini delle avanguardie i luoghi tipici dei suoi eventi, le scene, i suoi atti; l’architettura trae dal montaggio cinematografico l’idea di una libertà delle sequenze di luoghi-immagini dal valore e dal significato polivalente”. Sotto questo aspetto i dispositivi architettonici possono allora essere letti come “simultaneità di sequenze dispiegabili secondo successioni” disposte in modo da “orientare lo sguardo di chi visita. Cosicché si congiungono posizioni o situazioni ad immagini simultanee e selettive delle diverse parti architettoniche e dei paesaggi della natura e dell’arte, scambiandole, invertendole, innestandole[4]. Il montaggio si coniuga allora “come tecnica compositiva che vede la sua formulazione teorica nel cinema” ma nel constatare “l’impossibilità di ricondurre a unità la figura dissolta nel paesaggio”, sposta il baricentro in un’ottica di contaminazione e sovrapposizione interdisciplinare. Con questo sguardo l’architettura può allora approfittare appieno della maggiore agilità sperimentativa che il cinema offre contenendo essa stessa nella sua logica l’idea di percorso sintetizzabile attraverso “fogli di montaggio”.

Il sodalizio tra le due discipline nasce e si connota parallelamente al percorso delle avanguardie “fissando il rapporto tra visione e movimento in uno spazio tempo [5]. I procedimenti di montaggio, consentono di scomporre la continuità, “operando per sezioni paradigmatiche”, permettendo poi all’operatore di ri-articolare una “nuova” narrazione nella quale il processo di composizione e ricomposizione è stato ri-intenzionato, costruendo una nuova unità di senso. Date le premesse, possiamo rintracciare nell’esperienza futurista e nelle sue propaggini, la protostoria del moderno montaggio, che in una prima fase ne fissa in modo intuitivo i canoni espressivi a partire da un’arte del dinamismo e poi con numerose sperimentazioni introduce, sempre con maggiore consapevolezza una “estetica del movimento, come puro cinematismo astratto di forme e di colori[6]. Sono questi gli anni dei manifesti, come il manifesto per La cinematografia futurista (Settembre1916) e il Manifesto per una rivoluzione cinematografica (Ottobre 1916)[7]. In essi “vi si esalta il cinema come strumento di una vera e propria rivoluzione del visivo in quanto arte della velocità, della sintesi analogica, dell’irrealtà trionfante”, ma soprattutto “della compenetrazione di tempi e spazi[8].

In Russia, tuttavia anche il libro futurista entrerà in una nuova fase quando nel 1914 Vasilij Kamenskij comincerà a pubblicare a Mosca i suoi Zelezobetonnye Poemy (Poemi di cemento armato), puri esperimenti di grafica poetica, caratterizzati dalla lunghezza di una pagina su cui sono liberamente distribuite le parole, sovente spezzate in unità discrete e stampate con lettere nei più diversi corpi tipografici, privi di strutture sintattiche, organizzati in autonome associazioni semantiche, contestuali o visive, aperti alla lettura/interpretazione secondo un ordine stabilito dallo stesso lettore, i Zelezobetonnye Poemy costruiscono un esito nuovo e radicale nel campo dell’invenzione, che valorizza quella autonomia della parola ed esalta quella carica semantica che è propria di ogni lettera, come era stato teorizzato dai futuristi russi nei loro manifesti.

In questo quadro di sperimentazione, Vita futurista riprende la formalizzazione seriale attuata dal teatro sintetico: successioni rapide e intensive di frammenti narrativi e illustrativi senza alcuna apparente connessione tra loro, “negando l’unità totale del dramma aristotelico[9], definendo queste scelte formali in termini di Sinfonie Poliespressive.In questi anni Balla e Depero pubblicavano il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo per lanciare una “nuova forma d’arte futurista basata sugli assemblaggi di materiali eterogenei” denominando le opere Complessi Plastici al fine di definire il tutto come costituito dal montaggio di più parti. “Il montaggio è lo stadio di esplosione dell’inquadratura […] Quando la tensione all’interno di un’inquadratura raggiunge il culmine e non può più crescere, allora questa esplode frantumandosi in pezzi di montaggio[10]. Esplosione allora di una totalità che non regge più la sua densità, come a sottolineare che l’unico modo per controllare la complessità è scomporla in sottosistemi semplici. Verificata l’impossibilità di ricondurre a unità la figura, giunta oramai allo stadio di esplosione.“La giustapposizione di due frammenti […] assomiglia più al loro prodotto che non alla loro somma, […] per il fatto che il risultato della giustapposizione è sempre qualitativamente diverso da ognuna delle sue componenti prese singolarmente”.[11] La questione si sposta allora fatalmente sui frammenti ri-conoscuti e sulla loro ri-composizione o in altre parole sul montaggio fisico e concettuale di elementi eterogenei che interagiscono tra loro ibridandosi sovrapponendosi in maniera tale in cui la forma finale si rapporti dialetticamente al suo processo generativo. Riconoscere è dunque il primo atto del processo, fatto mentale, mnemonico, legato al “Vedere”, momento necessario affinché si possano attivare il processi di riconfigurazione intenzionale. Il problema della Virtualità, non è dunque problema esclusivamente di rappresentazione, ma è per noi principalmente problema di sospensione della forma concreta. Durante questa sospensione tutte le “rappresentazioni” sono ammesse, esse partecipano attivamente al processo creativo, ne sono motore e prodotto, il limite resta la nostra capacità di critica, legata sopratutto a quello che andiamo cercando.

 

 Qui il link all’articolo “Non- standard architecture” di Carlo Deregibus.

 

 


Note:

  1. G.E. Lessing , Laokoon, 1766; da ,Testuale, F.Caroli, L.Caramel, Mazzotta editore , Milano, 1979.
  2. Paul Valéry, Il metodo di Leonardo, da Parallax, S.Holl, Postmedia Srl, , Milano, 2000.
  3. S.Holl, Parallax, Postmedia Srl, ,2000, Milano. Pag. 27
  4. E. D’Alfonso, D. Samsa, Architettura, Arnoldo Mondatori Editore, Milano, 2001. Pag. 291, 300
  5. Arc numero 3 maggio 1998 pag.21
  6. Cfr. G.Lista, i caratteri distintivi del futurismo emiliano romagnolo e le loro ripercussioni nel campo dello spettacolo, Artioli Editore, Modena, 1990.
  7. Crf. Nota di Soffici pubblicatain “Lacerba”, a.II, n°4, 15 febbraio 1916, Firenze.
  8. Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira Editore, Milano, 2001. Pag. 47.
  9. ibid. Pag. 48.
  10. S.M. Ejzenstejn, Lezioni di regia, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1994, pag.149.
  11. S. M. Ejzenstejn, Réflexions d’un cinéaste, Moscow ,1958, pag. 69.

 


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