Il tema di questo scritto apre probabilmente un arcipelago d’interrogativi. Mi soffermerei, tuttavia, sul significato metodologico e sulla portata innovativa dell’iniziativa di cooperazione alla quale ho potuto partecipare. Lascio alle pubblicazioni elaborate, il dettaglio e il merito dei progetti elaborati, l’illustrazione delle scelte architettonico-edilizie adottate e l’evidenza dell’enorme sforzo di analisi e studio di tecnologie appropriate prese nel “paniere” delle innumerevoli esperienze maturate e acquisite nei Paesi in via di sviluppo da me personalmente e dai colleghi con i quali ho avuto il piacere di lavorare.

Trattasi di un’azione di sostegno e aiuto al settore della sanità in Afghanistan, nelle Province di Herat e Kabul, realizzata con fondi della Cooperazione Italiana. Più precisamente all’Ospedale Pediatrico di Herat e all’Ospedale Esteqlal di Kabul. Va ricordato che, per la prima volta nel settore della sanità in Afghanistan, la maggior parte del finanziamento italiano è stato affidato in maniera diretta al Governo Afghano; un passo importante sulla via del rafforzamento dei rapporti e delle relazioni tra “attori esterni e locali”, puntando al superamento della sola idea di aiuto a dono e cercando di entrare nel solco della crescita e dello sviluppo del Paese.

Ciò ha significato non solo il pensare alla riqualificazione e al miglioramento delle strutture sanitarie ma soprattutto al sostegno dell’istituzione, al suo rafforzamento, alla qualità del servizio e del contenuto dello stesso, mirando in maniera preponderante alla centralità del diritto. La conquista del diritto alla salute è intrinsecamente legata al miglioramento delle condizioni di vita di un popolo.

La conquista dei diritti, in questo caso del diritto alla salute, si accompagna allo sviluppo economico e al rafforzamento delle sue istituzioni rappresentative e democratiche che promuovono la crescita della società civile, dell’idea di Governo, dell’idea di Stato, del suo territorio e delle sue città. Città intesa come territorio dell’insediamento umano (case, scuole, fabbriche, negozi, ospedali, servizi ecc.). Ciò porta inevitabilmente a ragionare sul concetto di crescita investendo sulla pianificazione, sulla programmazione e sulla progettazione “dell’oggi rivolto al domani”. È nel perimetro di questo principio che l’architetto, l’operatore umanitario e chiunque si trovi ad operare nella cooperazione allo sviluppo e nell’aiuto umanitario, dovrebbe centrare il proprio agire. Pensare all’agire solo dopo aver ragionato al “come”.

Purtroppo, si deve constatare il profondo vuoto contenutistico di tale approccio, dovuto al generale disinteresse delle principali Agenzie Internazionali, le quali, troppo spesso travolte dall’esigenza dell’agire, determinano allocazione di fondi che non tengono conto della necessità d’investire oltre che sul fare anche sul come fare. Il “fare cooperazione” senza una reale elaborazione e sistematizzazione teorica, tratta dalle stesse esperienze dell’aiuto allo sviluppo, porta sovente a tradurre l’azione in caos e alla dispersione di risorse.

È ormai riconosciuto che la necessità di cominciare a pensare allo sviluppo s’impone fin dalle prime fasi di progettazione e realizzazione degli aiuti umanitari in emergenza. Un concetto certamente non nuovo ma che stenta a prendere vigore su vasta scala. Ci si sarebbe potuto aspettare che, subito dopo l’11 settembre e l’avvio della guerra in Afghanistan, si avviasse un profondo ripensamento strategico delle politiche dell’aiuto e più precisamente nell’ambito delle emergenze e nelle fasi di ricostruzione venendo dall’esperienza mutuata nell’area dei paesi dell’ex Yugoslavia. Purtroppo, tale aspettativa è stata smentita dai fatti. Quanto sta accadendo in Afghanistan, a sostegno delle emergenze e della ricostruzione post conflitto, ricalca fedelmente gli errori e le scelte strategiche adottate, in analoghi contesti, nella ex Yugoslavia che hanno manifestato appieno la loro debolezza.

In un simile contesto si è prodotto uno squilibrio d’investimenti finanziari che ha visto il pressoché assoluto prevalere di fondi a favore di “azioni sull’immediato” a scapito di programmi e politiche di medio e lungo termine. Si differenzia da questo quadro l’approccio da parte della cooperazione italiana in relazione all’appoggio ai programmi nazionali di sostegno delle Province di Herat e Kabul ove si è teso a dare alle istituzioni del Paese strumenti reali e concreti di pianificazione e di programmazione. Nonostante l’incertezza dovuta alla programmazione annuale, se non semestrale, si è deciso di formulare un programma di sviluppo dell’Ospedale Pediatrico di Herat e dell’Ospedale Esteqlal di Kabul elaborando un “ Master Plan” di sviluppo infrastrutturale (opere civili) e la stesura di Piani Strategici Pluriennali. Seguendo un approccio semplice e programmato, si è pensato di contribuire laddove la programmazione sanitaria nazionale era carente, per poi favorire la messa in atto con risorse interne allo Stato Afghano o attraverso progetti finanziati dall’Italia e da altri donatori internazionali.

Senza entrare nel merito dei veri e propri “progetti architettonici” e rimandando alle illustrazioni riportate, tengo ad evidenziare quanto questa attività mi ha trovato attore di una singolare esperienza malgrado i miei lunghi anni di cooperazione. L’architetto, in quanto tale, ha svolto la sua piena “funzione d’uso”. L’impegno al progetto in una logica di equipe con altri colleghi italiani ed afghani ha prodotto un’efficace e riconosciuta sintesi di saperi applicati al processo edilizio e al territorio circostante. L’architetto dentro e nel mezzo di un processo difficile ed articolato in trasformazione, ha portando il suo bagaglio di conoscenza e di esperienza come uno dei saperi necessari che, sommandosi ad altri, innesca straordinari scenari di sviluppo del Piano. Quando si progetta ed opera in Paesi che per cultura e condizioni sono molto lontani dai nostri lo sforzo progettuale deve essere teso al ricevere parimenti a quello del dare. Una struttura ospedaliera a Kabul non può essere oggi uguale ad una di Milano. Certamente, il diritto alla salute dei suoi utenti sì.

 

PER CHI, COSA.

Intervista a Marianna Sainati

 

L’idea di questo breve articolo, che racconta di una singolare esperienza italiana all’estero in quella drammatica situazione di guerra in cui è coinvolta l’Italia in Afghanistan, nasce dalla convergenza tra l’esperienza di Marianna Sainati, architetto milanese che collabora alla rivista, che nello scorso anno ha collaborato alla missione col compito di pubblicarne i risultati e l’intenzione di guardare ai problemi del mestiere e dell’arte nelle contraddizioni, come in questo caso tra guerra e diritti, tra morte e sanità. Non tanto nella retorica dei valori, ma nella quotidianità dell’esercizio di ciò che si può fare e nelle contraddizioni in cui capita di poter operare.

Contraddizioni che si esplicitano in quello stato di guerra in cui mentre civili e militari, con dissimmetriche motivazioni, vengono feriti ciò nonostante, parimenti, reclamano il diritto alla salute in quella cooperazione con le istituzioni “civili” che non smettono di rivendicare diritti. Così per gli architetti in questo caso si è trattato di portare il loro contributo con la costruzione di strutture ospedaliere.

Perciò abbiamo pensato di intervistare l’architetto Sainati perchè ci riferisse di questa esperienza, avendo appunto collaborato col compito di curare la pubblicazione di un libro che restituisse i risultati e l’impegno tangibili delle missioni della Cooperazione italiana in Afghanistan.

 

[Domanda] Partiamo dalla sua esperienza.

[Risposta] L’anno scorso venni contattata per curare la pubblicazione di un testo voluto dalla Cooperazione italiana e con la collaborazione del Ministero della Sanità afghano, il Ministero Affari Esteri italiano e l’ Ambasciata d’Italia a Kabul.

I contenuti della pubblicazione riguardavano gli interventi operati nel settore sanitario, che intendono garantire, come riferisce Alberto Bortolan, Direttore dell’Ufficio per la Cooperazione allo Sviluppo, nella prefazione al libro, “[…] l’accesso alle cure e alle strutture ospedaliere che è uno dei presupposti fondanti per il miglioramento delle condizioni di vita di una popolazione”. L’incarico prevedeva, inizialmente, una missione a Kabul, di circa un mese, in modo da poter accedere facilmente e direttamente alla fonte, al materiale e, soprattutto, di avvalersi della collaborazione di coloro i quali avevano svolto in prima persona le attività oggetto della pubblicazione. In seguito, purtroppo, per sopraggiunte complicazioni di varia natura e, non ultime , per questioni di sicurezza, la missione è stata cancellata, quindi, si è conseguentemente optato di svolgere il lavoro dall’Italia, creando una sorta di “ponte di comunicazione” diretto e costante tra la sede della Cooperazione Italiana a Kabul, in particolare col curatore della pubblicazione, l’arch. IOttavio Tozzo, ed il mio studio.

La delusione è stata enorme. Ma mi sbagliavo. In realtà l’esperienza vissuta, benché virtuale, è stata intensa e coinvolgente.

 

[D.] Si può forse affrontare il tema dell’opera realizzata esposta nella pubblicazione.

[R.] Certamente non posso essere esaustiva nell’elencare totalità delle attività promosse, concluse o progettate ed in via di esecuzione tantomeno e, soprattutto, i numerosi vincoli che vengono riscontrati nell’attuazioni di quest’ultime. Credo però sia importante, come riferisce Alberto Bortolan, comprendere che tutte le attività e le iniziative sono strutturate secondo un criterio di sostenibilità che si inserisce in contesto caratterizzato da difficoltà enormi dovute allo stato di guerra e con evidenti conseguenze sul livello delle risorse disponibili di ordine strutturale, burocratico, finanziario e in relazione alle difficoltà gestionali. Lo sforzo intrapreso è a 360 gradi ed a tutte le scale di intervento; dalla comprensioni delle priorità, alla dotazione degli strumenti di governo, alla formazione del personale addetto agli ospedali, alla fornitura dei medicinali e alla dotazione mezzi di comunicazione che permettano alla popolazione delle zone limitrofe di raggiungere i centri.

Alla luce di ciò, dunque, il tema “Per chi” è inevitabilmente emerso dapprima durante il lavoro, attraverso la lettura dei contenuti, i contributi degli attori principali impegnati in questo progetto in Afghanistan e, in seguito, la felice sintesi, “Per chi, cosa

 

[D.] Siamo dunque giunti alle modalità secondo le quali è stato svolto questo lavoro.

[R.] Anche le modalità con le quali si è svolto il lavoro, e quindi di rapportarsi coi referenti a Kabul, hanno avuto un forte impatto sulla comprensione e la percezione di ciò che viene fatto, per chi, come e in che contesto.

Non me ne vogliate se divago per esporre, tramite un racconto personale, le ragioni di un seguito che qui ha luogo.

La necessità di collaborare in tempo reale con i miei referenti a Kabul, seguendo le loro necessità organizzative di elaborazione dei testi, delle schede, i loro tempi, che sono anche tempi di guerra, di ostacoli di comunicazione spaziale e temporale – paradossalmente è stato più facile comunicare giornalmente tra l’Afghanistan e l’Italia che tra le persone che vivono nell’area protetta e i referenti afghani che vivono fuori dalla cinta, in Kabul – ha fatto si che la percezione di quello di cui mi stavo occupando “ superficialmente” si sia evoluta via via modificando totalmente l’elemento spazio/tempo e proiettandomi in un mondo che non vedevo, che non vivevo, al quale non partecipavo se non virtualmente, grazie proprio alla comprensione graduale di un messaggio, al fine della progettazione di un contenitore adatto alla comunicazione di contenuti importanti.

Infine un pomeriggio sono arrivate delle cartelle zippate di immagini denominate “People” e da quel momento il rapporto virtuale, mediato dalla tecnologia informatica delle comunicazioni tra me e Kabul ha subito una svolta.

Ho aperto la cartella delle immagini ed ho cominciato a scorrerle tutte, una per una.

Ho scorso per tutta la notte quei volti di vecchi, di bambini, le poche immagini di uomini adulti e di donne avvolte nei loro burka, che mi hanno improvvisamente proiettato in un mondo che non conoscevo, e che tutt’ora non conosco, ma che mi ha commosso profondamente. In quell’insieme di immagini c’era una qualcosa che intuivo, senza riuscire ad identificarla: una strana proporzione che non mettevo a fuoco nei soggetti fotografati.

Ho cominciato a dividere le foto per soggetto; i bambini, i vecchi, i bambini in compagnia dei vecchi, le donne, le donne con i bambini e gli uomini adulti.

All’alba avevo una cartella stracolma di immagini di bambini da soli che “giocavano” nella polvere o coricati nel letto di un ospedale, pochissime immagini di donne, avvolte nei loro burka, e tre o quattro foto di uomini adulti. Improvvisamente la semplice suddivisone per soggetti mi aveva restituito una realtà “fotografata”, una realtà sociale e culturale ben precisa e talvolta drammatica.

Le ragioni del “PER CHI” sono il motore del “COSA” e rappresentano la motivazione di tutto il percorso che parte dalla volontà del formulare il concetto di “Diritto alla salute”.

Probabilmente il “nuovo il tema dell’ospitalità nel doppio senso dell’ospitante e dell’essere ospitati” è stato espresso dall’Ambasciatore italiano a Kabul “Una delle realtà che posso direttamente testimoniare, avendola vissuta in questi tre anni in cui ho avuto l’onore di rappresentare l’Italia in questo meraviglioso e al contempo drammatico Paese, è proprio la strettissima collaborazione tra il Ministro della Sanità, i suoi professionisti, i suoi medici, i suoi infermieri ed il personale italiano che si è succeduto nel tempo.

Concludo con l’espressione dell’idea di Alberto Bortolan, Direttore dell’Ufficio per la Cooperazione allo Sviluppo,La Cooperazione è, prevalentemente, nella mia visione, attenzione alla persona umana, non ai numeri. E tra le persone, prima di tutte, quelle più svantaggiate. […] Il lavoro della Cooperazione italiana per la gente, lo sforzo a migliorarne le condizioni di vita – e talvolta solo a lenirne le sofferenze- procede di pari passo con la volontà di trasferire le capacità e la gestione delle iniziative di sviluppo in mani afghane, istituzioni e società civile“.


Save pagePDF pageEmail pagePrint page
SE HAI APPREZZATO QUESTO ARTICOLO CONDIVIDILO CON LA TUA RETE DI CONTATTI