Lo spazio pubblico, sia esso all’aperto o al chiuso, costituisce nella ricerca architettonica odierna l’elemento promotore per la risoluzione del cronico svuotamento, dalle funzioni civili, del progetto d’architettura, spesso imposto dalla cultura della globalizzazione.

Lo spazio pubblico inteso nella sua funzione di “servizio” alla comunità possiede oggi un compito operativo e strutturale: quello di essere foriero di uno sviluppo alternativo non solo della città ma anche della società. Si propone una rapida panoraminca, per mezzo di alcuni esempi, su certa architettura che si è impegnata ad affrontare le questioni proprie della modernità, quali quelle del superamento di una realtà rinunciataria e globalmente polarizzata tra centri e periferie, tra nord e sud del mondo, tra aree arretrate e aree sviluppate, proprio avendo assunto lo spazio pubblico, inteso nelle sue ampie declinazioni, come strumento paradigmatico del riscatto civile.

Le precedenti considerazioni tentano di chiarire, nonostante la loro schematicità, il punto di vista assunto come chiave di lettura non solo per queste annotazioni ma anche per una riconosciuta linea di ricerca e compositiva che ha caratterizzato molte figure centrali, sia dello scorso secolo che contemporanee, nella loro più lucida ed originale espressione.

L’architettura a cui ci si vuole riferire possiede una riconoscibile spinta operativa, divenendo espressione di un’ideologia comunitaria e multipolare che si contrappone alla realtà globale a cui si è fatto riferimento in precedenza.

La scelta degli esempi è strettamente collegata alla funzione (educazione e tempo libero) e al ruolo che tali edifici svolgono all’interno della città andando a costituire, attraverso rigenerati sistemi di servizi, le dorsali su cui delineare alternativi programmi di sviluppo e pianificazione (vengono segnalati due testi nell’intenzione di palesare, rispetto alla vastità dei significati, sotto quale profilo ideologico si debba intendere e interpretare la nozione di «servizi». C. Aymonino, Il significato delle città, Marsilio Editori Venezia, 1975; G. Canella, Le componenti di un sistema integrato di servizi sociali metropolitani, in Introduzione alla cultura della città, a cura di Lodovico Meneghetti, CLUP, Milano, 1981). Gli esempi che si intende proporre come significativi di un’architettura dalle aspirazioni civili e programmatiche si collocano principalmente in Latinoamerica. La motivazione risiede nella convinzione che nel contesto latinoamericano operi ancora un’architettura che vuole farsi promotrice di progresso sociale, combinando in questo disegno capacità di sperimentazione progettuale e impegnata vocazione civile. E’ questo infatti un primato che una certa cultura architettonica, soprattutto di area italiana, riconosce al continente latinoamericano: le condizioni di parziale arretratezza, la presenza di forti squilibri e contraddizioni (politici, economici, sociali, insediativi), la stessa instabilità di un ambiente naturale ricchissimo ma spesso sconvolto da eventi avversi (sismi, cicloni, inondazioni, eccetera), spingono architetti, forze politiche, movimenti culturali, alla ricerca di soluzioni alternative che possano opporsi alle tendenze entropiche della megalopoli, la quale sembra proporsi come l’unica prospettiva a un’espansione più equa e equilibrata della città, del territorio, della società.

Un primo esempio che si vorrebbe proporre all’attenzione è quello rappresentato dai CEU (Centri unificati di educazione) degli architetti Alexandre Delijaicov, André Takiya, Wanderley Ariza, Rogerio David Rizk a San Paolo in Brasile (R. Anelli, Centri Unificati di Educazione a San Paolo, in “Casabella”, n.272, novembre 2004). Il programma, promosso dai municipi della città a partire dai primi anni del 2000, sostiene la costruzione di centri educativi nella periferia. Tale esperienza è da collocarsi all’interno di una lunga tradizione brasiliana la quale, attraverso l’edificazione e la diffusione della scuola pubblica, ha svolto un importante ruolo nella formazione della coscienza civica degli abitanti favorendo, attraverso la sua funzione polarizzante, la creazione di comunità consolidate.

Questa politica d’intervento, risultato di un’intensa collaborazione tra educatori e architetti, ha come corrispettivi capofila Anisio Teixeira e Helio Duarte (Cfr. H. Duarte, O problema escolar e a arquitectura, in “Habitat”, n°4, luglio, 1951; C. Ferreira Martins, Costruir una arquitectura, costruir un paìs, in Brasil: de la antropofagia a Brasilia, 1920-1950, IVAM Institut Valencià d’Art Modern, Valenzia, 2000) e come massimi esempi architettonici il Centro per il tempo libero SESC Fabrica da Pompeia di Lina Bo Bardi.

L’esperienza dei CEU coinvolge circa quarantacinque progetti tra i realizzati e quelli in previsione, tutti ubicati nella periferia paulista. Il programma prevede lo studio di quattro edifici tipo, i quali mantengono, in tutti i complessi, la medesima funzione e figurazione, realizzati, inoltre, con elementi presenti già sul mercato. Rispetto alle funzioni sono così articolati: un primo edificio, il più grande, ospita aule, refettori, biblioteca, laboratori, spazi espositivi e di aggregazione; il secondo, di dimensioni minori ma dall’accentuato sviluppo in altezza, riunisce palestre, teatro e sala musicale; il terzo è una sorta di disco sollevato e contiene l’asilo nido; infine due torri–cisterne configurano gli accessi principali. La piazza ottenuta, spazio vuoto lasciato dalle differenti combinazioni dei volumi principali, è dedicata ai campi da gioco e alle piscine. L’idea di progettare dei volumi tipo, lasciando la possibilità di poterne variare i rapporti e costruire differenti relazioni, risponde alla volontà di creare una maggiore contestualizzazione con il luogo di destinazione.

L’ambizione di tale operazione pianificata non si limita alla creazione di un mero gioco compositivo fatto di contrappunti volumetrici ma, cercando una maggiore interazione con il contesto, tenta di innescare una nuova urbanità per contribuire alla strutturazione della città partendo dalle sue zone povere e periferiche, promuovendone un riscatto urbano, sociale ed economico, anche attraverso una consapevole accentuazione formale in linea con la tradizione dell’architettura brasiliana.

Un’esperienza simile a quella dei CEU brasiliani è stata proposta, e si sta realizzando, nelle periferie di Caracas, in Venezuela, attraverso il progetto CAMEBA. Il programma prevede tre fasi: la prima riguarda la realizzazione e il miglioramento delle infrastrutture; la seconda l’incentivazione della presenza di istituzioni nei barrios; nella terza fase si vorrebbe istituire un fondo per finanziare progetti riguardanti il miglioramento della qualità delle abitazioni. Le due opere che vengono segnalate rientrano programmaticamente all’interno di questo piano di recupero per le periferie cittadine e riguardano in entrambi i casi dei centri ricreativi in cui, oltre a dei campi da gioco, trovano posto aule, uffici e un centro per l’assistenza sanitaria.

Le due realizzazioni, il centro ricreativo per il barrio San Miguel de la Vega (1998-2000) (Irina Verona, Urban Upgrading: A New Community Center in the Barrios of Caracas, in “Praxis” n°5, 2003) e il Gymnasium Vertical (2001-2004), sono opera degli architetti Mateo e Matias Pintò. La logica che ne governa la composizione funzionale e distributiva è la medesima: un campo da gioco all’interno dell’edificio e, a corona, una serie di matronei–ballatoi che, oltre a servire da tribune per assistere alle manifestazioni sportive, fungono da disimpegni distributivi per poter raggiungere gli uffici posti ai differenti piani; sul tetto piano un ulteriore campo da gioco. Per questa compresenza di funzioni, che rende gli edifici fruibili e abitati nelle differenti ore della giornata, è possibile il confronto con una lunga tradizione architettonica che identifica negli edifici destinati all’istruzione, alle attività culturali, all’intrattenimento di massa, eccetera. il luogo dove incentivare e sviluppare un senso radicato di appartenenza, di identità per quelle comunità che vivono la condizione subalterna propria della periferia. Tra gli esempi più recenti, riconducibili a tale ideologia, troviamo le architetture dei centri civici di Guido Canella, le quali, con finalità simili, sono inserite nella periferia milanese come fattori di riabilitazione funzionale e architettonica, veri “monumenti”, come è stato detto, di un diverso rapporto tra centro e periferia, tra città, campagna e contesto territoriale.

In tutti gli esempi analizzati, oltre al fondamentale riconoscimento ideologico di una pianificazione programmata e centralizzata, l’esito compositivo e più propriamente figurativo esprime l’istanza di una nuova monumentalità, in cui le realtà urbane emarginate delle periferie del mondo possano trovare una propria identità e una adeguata rappresentazione.

Nella comune ricerca volta al superamento delle situazioni di emergenza sociale e urbana, il ricorrere di determinate tematiche pone le basi per il ripensamento delle linee programmatiche che guidano l’attuale gestione politica, sociale e infrastrutturale della città, denunciandone le carenze e indicando la necessità di una pianificazione strutturale e integrata del territorio. Il contesto delle realizzazioni proposte, costituito dalla caoticità esasperata delle favelas brasiliane o dai barrios venezuelani, mostra come questi complessi siano l’unico spazio dedicato alla vita associata e di comunità, vera e propria istituzione per la promozione del riscatto sociale di chi vi abita. Le considerazioni non si limitano ad un livello ideologico e programmatico ma sono confermate dal disegno della città; i CEU come i centri ricreativi rompono il quadro del monotono paesaggio prodotto dall’assenza di pianificazione e propongono nuovi centri generatori per nuove politiche di sviluppo urbano.

La progettazione dello spazio pubblico diviene ancora elemento distintivo nell’avveduta pianificazione della residenza popolare. La piazza, la strada sono i luoghi del collettivo propri di una «dimensione mediterranea» (riscontrabile anche nei popoli dell’America Latina) che ha costituito spesso il punto nodale di riflessioni compositive nel progetto di architettura, come, ad esempio, per le case d’abitazione al Quartiere Tiburtino di Roma – o nelle case per braccianti a Cerignola –, dove Mario Ridolfi, giustapponendo agli ingressi un luogo di filtro tra strada e privato, ne dilata gli spazi e i confini in una poetica compositiva capace di raccogliere elementi propri della tradizione e di trasformarli in una vera invenzione tipologica.

Anche Walter Benjamin, descrivendo Napoli (Come l’ambiente domestico si ricrea sulla strada, con sedie, focolare e altare, così, solo in maniera molto più chiassosa la strada penetra all’interno delle case. Anche la più povera di queste è gremita di candele di cera, santi di pastafrolla, fasci di fotografie sui muri e letti in ferro, quanto la strada lo è di carri, persone e luci. La miseria ha provocato una dilatazione dei confini che è immagine speculare della più radiosa libertà di spirito.» da: Walter Benjamin, Immagini di città, 1963, traduzione italiana Giulio Einaudi editori, Torino, 2007, p. 13), si sofferma con insistente enfasi nella descrizione dei viottoli partenopei. La strada è parte integrante e costituente delle povere case dove la presenza persino degli arredi sottolinea la mancanza di un confine distinto tra il pubblico ed il privato. Tale osservazione acquista, negli scritti di Benjamin, forza decisiva nel confronto con le città del nord Europa, le quali sono definite, dallo stesso autore, attraverso l’immagine del «tutto conchiuso».

Il problema della inadeguatezza quantitativa e qualitativa nel settore residenziale (Cfr. H. Eliash, E. San Martìn, L’abitazione sociale e la costruzione della periferia urbana in America latina, in Architettura e società: l’America Latina nel XX secolo, a cura di E. Dieste, H. Eliash, C. Gonzales Lobo, R. Gutierrez, J. Moscato, E. San Martin, Jaca Book, Milano, 1996; J. Salas Serrano, Contra el hambre de viviendas. Soluciones tecnològicas latinoamericanas, Escala Bogotà, 1992; F. Garcia-Huidoboro, D. Torres Torriti, N. Tugas, El Tiempo Construye! Time Builds!Editorial Gustavo Gili, Barcellona, 2008) è stato affrontato con continuità nei paesi latinoamericani, soprattutto a causa delle grandi ondate di inurbamento che ciclicamente sono avvenute dalle campagne verso le città. La questione dell’abitazione sociale si è così affermata come uno dei “temi caldi” sia per gli architetti che per le amministrazioni impegnate a livello sociale ed economico nella pianificazione urbana (o quanto meno nel contenimento del degrado delle periferie) e proprio attraverso la convincente modulazione di spazi collettivi e privati si sono raggiunte le soluzione di maggior interesse.

Arbol para vivir (1990) è una realizzazione dell’architetto venezuelano Fruto Vivas a Lecheria, un centro costiero del Venezuela, nella quale applica alla residenza popolare (destinata in questo caso a una cooperativa di lavoratori impiegati nel settore della petrolchimica) i suoi studi sulle tecniche costruttive basate sull’interazione di moduli in struttura metallica prefabbricata e sull’impiego della volta catalana in solai modulari a cassettoni. Compositivamente in questo caso è lo sviluppo orizzontale di volumi parallelepipedi sovrapposti a caratterizzare il progetto. Lo sfalsamento tra i corpi residenziali permette la creazione di ampie terrazze, che diventano spazi destinati alla collettività e al gioco. L’opera è del 1990, e l’anno successivo un progetto simile viene redatto dallo stesso Vivas per il Barrio Los Erasos a Caracas. Il progetto a causa delle difficoltà economiche del paese non verrà realizzato, rimangono tuttavia importanti le premesse. Gli abitanti a cui l’edificio sarebbe stato destinato appartenevano a una comunità di circa 4000 persone originarie di una regione dell’interno, che da circa un trentennio avevano dato vita a un quartiere precario e abusivo in un parco con forti avvallamenti argillosi (quebradas) nella zona centrale della città. Il progetto prevedeva un sistema costruttivo fondato su un componente tubolare unico e modulare, così da consentire facilmente l’autocostruzione in loco da parte degli abitanti senza che ne fosse previsto il trasferimento ai bordi della città. Ma ciò che occorre ricordare è che questo aspetto tecnico, comunque di grande importanza e suggestione, si inseriva in un programma di intervento assai più articolato, i cui punti principali erano finalizzati all’istruzione e alla formazione professionale nonché alla promozione di microattività economiche autogestite: (agricoltura urbana, commercializzazione dei prodotti, eccetera): le soluzioni progettuali erano esattamente pensate per consentire e agevolare questo programma di intervento (piani terrazzati per la coltivazione agricola, ampie zone d’ombra, spazi per attività comuni, locali per la vendita, eccetera). Insomma un progetto esemplare di quanto possa essere identifcato come “architettura programmatica”.

I progetti per quartieri residenziali realizzati in Cile da Alejandro Aravena, fanno parte delle realizzazioni della società Elemental S.A, hanno come finalità la progettazione e la realizzazione di interventi urbani e di edilizia pubblica. I progetti rientrano nel programma governativo chiamato Chile–Barrio, il progetto si propone di fornire alla popolazione residente nei quartieri degradati una soluzione abitativa migliore attraverso l’investimento statale.

Uno degli elementi rilevanti in questi progetti, a cui si dedica minor spazio descrittivo grazie alla loro riconosciuta popolarità, è l’attenzione all’ubicazione delle nuove residenze, in quanto una delle priorità era proprio quella di lasciare gli abitanti nelle zone centrali dove si erano stanziati da circa trent’anni e dove avevano potuto godere dei servizi e delle opportunità metropolitane. Calzante sembra il parallelismo con l’esperienza italiana del dopoguerra quando molti architetti si misurarono in tematiche simili, e dove esperienze progettuali, la Martella a Matera per esempio, dimostrarono come le consolidate relazioni urbane e sociali dei centri storici venissero difficilmente ricreate nei quartieri decentrati nelle periferie o in aree suburbane.

Il progetto è dotato, ogni venti unità abitative, di una “piazza” comune, spazio a cavallo tra il pubblico e il privato. Il prolungamento della dimora individuale verso una dimensione maggiormente pubblica e collettiva ha implicazioni di carattere sia sociale che tipologico–compositivo. Questa attenzione progettuale è di particolare interesse proprio per la capacità di trasformare una tradizione in un fatto fisico, in un elemento determinante nell’ideazione del planivolumetrico, evitando ogni scadimento folkloristico.

Per concludere queste considerazioni, le quali forniscono solamente un punto di partenza per una riflessione critica più ampia e articolata, si vuole sottolineare, ancora una volta, come lo spazio pubblico costituisca, proprio nel suo valore di strumento operante nella costruzione dell’identità collettiva, l’elemento distintivo di certa architettura che ha ambito ad ottenere un ruolo civile oltre che pedagogico nell’edificazione reale della società come della città.


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