Se dovessimo analizzare la contemporaneità privilegiando alcune variabili, potremmo ben dire che sono tre quelle che maggiormente hanno caratterizzato quest’ultimo ventennio: l’irrompere del “pensiero debole”, l’arretramento dei dualismi ideologici seguito alla caduta del Muro e la, per alcuni versi conseguente, perdita di intensità della “relazione di rappresentanza”. Paradossalmente quanto avrebbe potuto produrre maggiore partecipazione per la perdita di centralità degli “ismi” ha prodotto l’emergere di nuove vulnerabilità che hanno allontanato anziché avvicinare il cittadino ai processi partecipativi. Eppure più che mai è forte la necessità di contribuire alle decisioni per quel tanto per cui oggi si è estesa la consapevolezza del valore comune della “qualità della vita” e dell’inevitabile ricaduta sul piano personale delle decisioni collettive. Stringendo l’ottica partecipativa all’urbanistica e al “fare città”, oggi più che mai è possibile evidenziare che città e cittadinanza coincidono, appartenenza e senso di comunità sono concetti che hanno un’unica radice, ambienti di vita e psiche si influenzano vicendevolmente, fino al punto di pensare – come diceva Calvino- che “le belle città rendono gli uomini più buoni”. Ma quali sono le belle città,? Quelle in cui la genialità architettonica è espressione dell’individualità o quella in cui le scelte collettive contribuiscono a far sì che le città non siano contenitori belli ma senz’anima? Si pensi alle scelte fatte per la ricostruzione di Ground Zero; si pensi alla grande consultazione dal basso fatta con il sistema dell’Electronic Town Meeting per valutare come ricostruire; si rifletta sulla decisione di non riproporre architetture verticali e cubature sempre più ampie per sostituirle col Memorial Plaza degli architetti Arada e Walker: una coppia di enormi vasche rivestite in granito, quattrocento arbusti e cascate d’acqua a flusso continuo. Una scelta partecipata e promossa dalla popolazione capace di “generare serenità e forza”; una scelta quella suggerita dagli abitanti della Grande mela in cui più che la prepotenza dei valori architettonici, si è imposto l’ascolto di chi vive quei luoghi, di chi li ha vissuti prima forse con la tracotanza di abitare le Twin Towers. Poi alla tracotanza si è sostituita la paura, la perdita della convinzione di essere invulnerabili sul proprio territorio, nella propria città, in un luogo simbolo del potere economico. La ricostruzione di Ground Zero è un esempio di come un’urbanistica partecipata può riproporre la città come fattore psicologico collettivo e individuale, come “metafora immediata della pienezza del vivere, della soddisfazione che può arridere a chi ha la coscienza di far parte di una comunità. La città-comunità come principio morale supremo: l’ordine, l’equilibrio, la capacità di rappresentare una struttura nella sua saldezza” (Strinati, 2007) e di vincere paura e solitudine. Questa è la bella architettura


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