Riprendo il tema della delegittimazione (sul quale ci richiamava Purini) di cui ho parlato altrove, sottolineando il disagio che, soprattutto gli architetti italiani hanno vissuto nel subirla. Un disagio nei confronti della disciplina stessa: dell’esercizio della disciplina. Fino all’autocensura. Indicando pessimismo sul valore della azione sul mondo, un lato oscuro della paura del futuro, il disagio si è tradotto in smarrimento del compito e cinismo nell’azione comunque necessaria. O ricerca dei modi di attenuare la colpa. Alla qual cosa bisogna reagire con la massima decisione.
Giacchè smarrimento e abbandono comportano la dimissione dell’esercizio di una facoltà  umana specifica : quella di costruire per abitare. È in gioco una competenza (nel senso di Chomsky). Quella di abitare/costruire che F. Choay ha distinto da quella del parlare. Ed è motivazione primaria, penso, della percezione che guarda il mondo per abitarlo e nell’abitarlo. Atto che  reclama l’atto del costruire a verifica delle ragioni dei fenomeni osservati e delle scoperte intuite nella percezione in atto. Da questo punto di vista la delegittimazione colpisce la facoltà stessa dell’ abitare nel laccio indissolubile con il costruire. E chiede un’espiazione. Occorre reagire! Ripeto, a cominciare dall’  interrogazione radicale  sulle facoltà stesse che sostengono l’esistenza umana: quelle di abitare/costruire.
D’altra parte il saper costruire o saper fare non deriva dal pensiero puro, ma dall’esercizio del pensare nel fare. E, dall’osservare i fenomeni della natura nell’esplorazione per verificarne la comprensione attraverso fatti. E, se questo primo accertamento reclama dall’ospite la verifica della congruenza col modo proprio  d’ abitare, ciò non toglie che  la verifica riguarda ciò che è già stato costruito.  La fabbrica costruita è infatti  ciò che istituisce   nell’ambiente le determinazioni d’abitare alle quali gli abitanti non possono sottrarsi, ma reagire con i comportamenti che espongono l’adattamento ad esse. E giudicare dell’adatto, più o meno. Da un lato arte, scienza e tecnica sono solidali ed inscindibili nell’atto di costruire che diviene senso comune o sapere – delle ragioni tettoniche della fabbrica, delle ragioni logiche delle posizioni reciproche e della prossemica della giusta distanza  nella disposizione e nel movimento centripeto / centrifugo.
Dall’altra gli ospiti che abitano, a cominciare dagli stessi costruttori, ne prendono atto come senso comune potendone giudicare nel merito. Non si può , infatti, ribaltare il rapporto perché il primo termine (la costruzione) apporta, da solo un sapere primario.
Detto questo, si deve altresì dire che, oggi, non si può che essere futuristi, perché,  nel rinnovarsi delle generazioni aperte a nuove domande motivate dalla percezione del proprio tempo, si pongono diversamente all’attenzione i fenomeni primari o archetipi che, nella comparazione con le osservazioni tramandate dalle epoche trascorse, aprono a nuove osservazioni,  scoperte ed invenzioni.
D’altra parte,  oggi è di nuovo il conflitto tra esperienza dello spazio visivo e esperienza dello spazio tattile. Tra prossimità commensurabile e “abisso” incommensurabile. Ove prossimità è tattilità. Mentre “abisso”, è spazio visivo. La cui ragione, ha condotto all’azzeramento dello spessore che contrae immediatamente il più lontano, l’orizzonte/skyline sul piano della finestra. Entrambe sono esperienza autentiche dello spazio. Irriducibili ad una. Oggi, dopo aver vissuto la supremazia delle spazio visivo  si avverte l’irriducibilità del tattile. E ad essa va di nuovo, diversamente l’attenzione.  In particolare alla  logica somatica istituita dalla costruzione. Logica che viene piuttosto dall’esplorazione nelle sue osservazioni tattili e non visive. Di questa sapienza la costruzione è portatrice come mimesi. Come tale,  esplorazione alla seconda potenza. Da un lato più potente, in quanto  istruita di un sapere dei fenomeni. Ma dall’altro, più debole, perché meno esaustiva.  E, in quanto unilaterale, incerta, ed esposta alla critica che la annichilisce per veder meglio, oltre, atro.
Dunque è sempre più importante il rimando all’esplorazione nel suo momento primitivo e primario di accesso al mondo. Quando non riflette su sé stessa. E  la sperimentazione dello spazio non si mostra nella sua visività pura. Ma nella somaticità integrale.  Per cui sporgendo le gambe divaricate nel passo si verifica il potere di muoversi e immediatamente  si misura il suolo. O sporgendo la mano al fondo del braccio si verifica la libertà del movimento attorno al busto mentre il piede  resta indietro saldamente ancorato a terra nel salto. E l’occhio è intanto andato immediatamente oltre e dietro ogni ostacolo al più lontano. La cosa (menhir, erma o casa), è dunque necessaria per esporre questa determinazione triadica tra il più vicino, il più lontano e il corpo  che tiene l’occhio alla giusta distanza. Instraura una prossemica.
So che la finestra aperta sposta dal picchetto al quadro la relazione. Che il suolo diviene irrilevante.  Che l’occhio domina con il suo potere di annullare la distanza. Ed il corpo apparentemente sparisce. Ma dopo tanto aver studiato lo spazio da dietro la finestra o il foglio che ne è rappresentazione occorre ripensare l’esperienza somatica, indagarne la logica prossemica. Che riguarda la costruzione architettonica, e la città dove comunque l’edificio è “termine” della mappatura urbana ovviamente manufatta. Per cui si manifesta come   interazione tra esplorazione e costruzione  che “fa” città, cioè abitabilità sociale o interazione somatica manifesta nei comportamenti del senso comune.
Allora l’attenzione si sposta  al momento tra trecento e quattrocento quando si è scoperto un accesso all’incommensurabilità del mondo lontano, ed attraverso il quadro/finestra/foglio si è inventato un modo di includerlo nel più vicino e di avere così un accesso alla misura. Lo spazio ha avuto una riduzione alla nozione visiva che ha messo fuori gioco i corpi. Coloro che l’avvertirono, provarono a cercare oltre. Come verifica l’opposizione tra quattrocento e seicento in Italia, tra lo spazio di Piero della Francesca e quello di Caravaggio o lo spazio di Donatello e quello di Bernini o quello  di Brunelleschi e quello di Borromini. Chi lo ha avvertito per l’oggi del XX secolo è stato Moretti . Allora è piuttosto tra Moretti e Terragni che in Italia è passato il testimonte tra anteguerra e dopoguerra. Ed aggiungo, tra prevalenza dello spazio visivo e attenzione allo spazio corporeo. Ed anche, penso, con l’adesione di Ponti e De Carli. Chi ha visto questo passaggio del testimone come segno dello spirito del tempo, di una mutazione nello “zeitgeist” della modernità, Eisemann, ha messo appunto, anche attraverso di loro, una forma acuta di analisi, la close reading, che verifica le ragioni delle mutazioni, mediante lo studio delle opere stesse.
Si può porre ora in questione il rapporto con la parola ed il suo “modo” di presentare alla mente i fatti perché ne faccia oggetto di pensiero. Anzi della scrittura e del suo modo di de-scrivere l’opera d’architettura nei confronti del di-segno, che è il modo dell’oggetto architettonico di presentare alla mente gli stessi fatti perché ne faccia oggetto di pensiero. E di un altro modo del pensiero.

Architettura: necessaria o illegittima

Spazio n. 3, copertina

Spazio n. 4, copertina


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