Nel 1972 fui interpellato da Emidio Greco ed Ettore Rosboch, rispettivamente regista e produttore del film “L’invenzione di Morel”, per progettare e realizzare il misterioso edificio che, nell’omonimo romanzo di Adolfo Bioy Casares, da cui era stata tratta la sceneggiatura, è chiamato “Museo” ed è collocato in un’isola tropicale non meglio identificata. Avevo letto quel libro qualche anno prima e ne ero rimasto molto colpito per le grandi potenzialità cinematografiche e meta-cinematografiche che conteneva. La macchina ideata da Morel di cui si parla nel romanzo è, in effetti, una proiezione fantascientifica della macchina da presa. Una macchina capace di catturare la realtà materiale e spazio temporale di un gruppo di amici convocati appositamente in quel luogo, per poi poterla riprodurre all’infinito realizzandone un’inconsapevole immortalità di cui altri sarebbero stati testimoni. Fui molto felice dell’opportunità che mi veniva offerta e lo fui ancora di più quando Emidio Greco mi disse che voleva collocare la storia in un’isola del mediterraneo all’inizio degli anni ’30, subito dopo la grande crisi del ’29. Quella collocazione storica mi dava la possibilità di sperimentare quei principi della modernità che erano stati il mio pane quotidiano durante gli anni di formazione alla facoltà di architettura di Valle Giulia. La prima immagine che mi venne in mente fu quella della torre Einstein a Potsdam di Erich Mendelsohn, osservatorio astronomico voluto dall’astronomo Finlay Freundlich, per verificare la teoria della relatività. Quando, dopo una lunga ricerca, decidemmo di collocare la costruzione degli esterni del “museo” sull’isola di Malta, per la precisione su una spianata brulla in prossimità di una baia chiamata Gnejna bay, quell’immagine espressionista e plastica su cui avevo cominciato a riflettere svanì.
Fui colpito dalla pietra tufacea che caratterizzava gran parte delle costruzioni maltesi e immaginai un’altra tipologia di torre che si sarebbe confrontata con la torre saracena che si trovava da alcuni secoli su quella spianata. La torre che caratterizzava l’edificio da costruire avrebbe avuto la funzione di tramite tra l’esterno e gli interni del cosiddetto “museo” che sarebbero stati realizzati nel teatro 4 di Cinecittà. Davanti alla torre una grande corte con piscina su cui affacciavano le due ali dell’edificio con le finestre delle stanze da letto. Questo per quanto riguarda l’esterno costruito a Malta. Per la progettazione degli interni mi sono trovato di fronte ad una problematica completamente diversa da quella che avevo affrontato per l’esterno. Con “L’invenzione di Morel” è iniziata per me una ricerca sul significato e sulle peculiarità di una architettura effimera che, nella sua concretezza, ha la funzione di creare punti di vista, percorsi, scorci, trasparenze, in sintesi, possibilità di linguaggio di un’altra arte che è quella cinematografica. Osservando la planimetria dei quattro ambienti principali che compongono l’immagine più pregnante del “museo” si nota subito lo svelamento del contenuto della torre che caratterizza l’esterno: una scala elicoidale che ruota intorno ad un grande lampadario che occupa tutto lo spazio centrale. Senza soluzione di continuità l’atrio si prolunga nel grande ambiente dello studio biblioteca che, sullo stesso asse è in connessione con un altro atrio circolare circondato da porte e, al cui centro è collocato, incassato nel pavimento, un acquario anch’esso circolare. Da una porta di questo secondo atrio si accede ad una grande sala da pranzo che si sviluppa su un asse diagonale rispetto a quello della biblioteca ma che ad essa è collegata attraverso un’altra porta e un breve corridoio. Questa configurazione planimetrica crea una circolarità tra i tre ambienti che in una architettura reale non avrebbe molto senso né dal punto di vista costruttivo né da quello funzionale ma che, in quanto architettura per il cinema offre possibilità di ripresa e potenzialità narrative che una architettura “reale” non potrebbe offrire. L’occasione offertami da “L’invenzione di Morel” di progettare uno spazio scenico drammaturgico che gioca un ruolo di protagonista della narrazione non mi è più capitata fino al 1979 quando per il film “Salto nel vuoto” di Marco Bellocchio misi a punto una serie di ricerche compositive che avevo impostato in due film del ’74 e del ’76: “Terminal” di Paolo Breccia e “Difficile morire” di Umberto Silva. L’appartamento della famiglia Ponticelli che in “Salto nel vuoto” gioca un ruolo fondamentale nella narrazione delle dinamiche patologiche tra il fratello giudice, interpretato da Michel Piccoli, e la sorella nevrotica, interpretata da Anouk Aimée, fu costruito nel teatro 8 degli studi de Paolis sulla via Tiburtina su un progetto la cui planimetria si sviluppava da un atrio ottagonale creando, come per “L’invenzione di Morel”, una continuità spaziale che permise, tra l’altro, la realizzazione di quello straordinario piano sequenza che conclude il film. Il linguaggio dell’architettura e il linguaggio del cinema si fondono in una unità espressiva che contiene in sé il linguaggio musicale e pittorico fotografico


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