Levanto, luglio 2021
Il clima è afoso, il cielo velato da uno strato compatto di nuvole che lascia però passare torridi raggi di sole. Ho preso l’impegno con Ernesto d’Alfonso, di scrivere o descrivere come avvenne, nei lontani anni ’70 del ‘900, il mio passaggio dall’attività di architetto per il cinema a quella di drammaturgo. Il contesto in cui avvenne fu quello del “Politecnico”, il centro culturale, o meglio, il laboratorio interdisciplinare a cui avevo dato vita tra il 1972 e il 1973 dove accanto ai laboratori di architettura, di grafica, di scultura, di ceramica, di fotografia e di musica trovarono spazio una sala teatrale, una sala cinematografica e uno spazio espositivo. Il teatro fu la prima cosa che immaginai entrando nel primo di quei locali semi abbandonati che avevano ospitato una fabbrica artigianale di reti e letti in un cortile del quartiere Flaminio.
Quando mi iscrissi alla facoltà di architettura, nel 1959, fui colpito che il nome del corso più importante del 1° e del 2° anno, di cui era titolare Enrico del Debbio, era elementi di composizione e rilievo dei monumenti. Subito dopo scoprii che i corsi fondamentali degli anni successivi erano quelli di composizione architettonica. Fino ad allora, per me e per quello che era il linguaggio comune, il termine composizione riguardava la musica e il termine compositore era sinonimo di musicista. Per la mia esperienza scolastica della storia dell’arte avevo appreso che, oltre che in musica, il termine composizione era usato dalla critica d’arte per descrivere opere pittoriche attraverso la schematizzazione in figure geometriche.
Da bambino volli imparare a suonare il violino e mia madre, grande amante della musica, mi affidò ad una insegnante molto brava, Carla Basilea, moglie del pianista Cesare Valabrega. Dopo qualche anno, su suggerimento della signora Valabrega, presi alcune lezioni di solfeggio, armonia e composizione. Apparve così nella mia vita un’altra parola, sempre legata alla musica, che ancora mi accompagna come obiettivo di ricerca artistica e di vita: “Armonia”. Quell’armonia le cui regole erano state messe in crisi dalle avanguardie del ‘900 non solo per la musica ma per tutte le arti. Dunque, dal 1959, l’architettura, con la sua storia millenaria di menhir, di dolmen, di capanne, di palafitte, di case, di casupole, di palazzi, di templi, di santuari, di necropoli, di piramidi, di torri, di acropoli, di cinte murarie, di porte, di fortezze, di piazze, di basiliche, di chiese, di cattedrali, di sinagoghe, di pagode, di palazzi reali, di parlamenti, di teatri, di università, di ospedali, di grattacieli, di unità di abitazione, di case popolari, di ville al mare, di centri commerciali, di stazioni ferroviarie, di porti, di aeroporti, di centri direzionali e così via verso un futuro in cui la tecnologia, con i suoi bisogni indotti, sembra prendere il sopravvento sulle esigenze umane primarie diventò il punto focale della mia vita. E lo restò fino al 1966.
Fin da bambino ho amato il teatro, a partire dal melodramma, grande passione di mia madre, fino al grande teatro di tradizione che ho avuto la fortuna di conoscere, tra gli anni ’40 e gli anni ’50, con Eduardo de Filippo, Cesco Baseggio, Sergio Tofano e tanti altri; dal teatro naturalista di Luchino Visconti e Luigi Squarzina, fino alle prime avanguardie romane degli anni ’60 da Carmelo Bene a Mario Ricci e a Giancarlo Nanni. Ho sperimentato me stesso come attore nel 1957 interpretando il ruolo di Pilade nell’ “Ifigenia in Tauride” di Euripide, che fu rappresentata al teatro romano di Ostia antica per i licei romani da una compagnia, diretta da Fulvio Tonti Rendell, che metteva in scena spettacoli per le scuole. L’anno successivo, appena presa la licenza liceale, come regista di un gruppo di allievi ed ex allievi del mio liceo, il “Tasso”, misi in scena “La cantatrice calva” di E. Jonesco e “La partita a scacchi” di G. Giacosa. Nel 1959 partecipai alla fondazione del Centro Universitario Teatrale di Roma che puntò su una scuola di recitazione diretta da Tatiana Pavlova. Nel 1961, al teatro Ateneo, curai la regia, insieme con Mario Prosperi, di “Zoo story” di Edward Albee con l’interpretazione di Gigi Proietti che della scuola del CUT di Roma divenne l’allievo più famoso. Ma non avevo mai pensato di fare del teatro il mio lavoro, anche se, avendo scelto architettura, e avendo in mente l’immagine di un architetto “artista” mi lasciavo aperte molte possibilità… Da quell’anno in poi fui completamente assorbito dagli studi di architettura e dalla militanza politica in un gruppo di “catto-comunisti”, parte di un nascente movimento studentesco che, alla facoltà di Valle Giulia, si manifestò in maniera eclatante, nel 1962, attraverso l’occupazione della facoltà, per contestare un docente e il suo insegnamento: si trattava del prof. Saverio Muratori, titolare del corso di composizione architettonica del 4° e 5° anno. Quelle lotte studentesche dei primi anni ’60 portarono allo sdoppiamento del corso di Saverio Muratori e alla cooptazione a Roma prima di Adalberto Libera e poi di Ludovico Quaroni. Con quest’ultimo, anni dopo, mi laureai con il progetto di un Teatro al borghetto Flaminio. Il 12 settembre 1965 morì mio padre e all’inizio dell’anno successivo la storia d’amore con Lucia Latour, che mi aveva coinvolto durante tutti gli anni dell’università, finì malamente. Mi allontanai dalla facoltà e iniziai a lavorare nel cinema, nel settore definito scenografia, che affrontai con l’occhio dell’architetto e con un certo successo. Nel 1968 un “ritorno” al teatro quando Mario Prosperi mi chiese di collaborare con lui alla messa in scena di un testo di Augusto Frassineti intitolato “Il tubo e il cubo”. Prodotto dal Teatro dei 101 e interpretato da Gigi Proietti, Paila Pavese, Tullio Valli e Barbara Valmorin, , fu rappresentato al teatro Valle, sede provvisoria del Teatro di Roma, diretto da Vito Pandolfi, in attesa che fosse restaurato il Teatro Argentina. Ideai la scenografia e intervenni sulla drammaturgia realizzando alcuni filmati, che vennero proiettati durante lo spettacolo, e che furono girati sul palcoscenico dell’Argentina che era all’epoca utilizzato come laboratorio scenotecnico e magazzino. Ricordo l’emozione che provai nell’aggirarmi tra i corridoi, i palchi, la sala, e il foyer di quello storico teatro che si trovava in uno stato di totale abbandono. Mi trovavo in quel luogo quando venni a sapere che a valle Giulia, davanti alla facoltà di architettura, erano in corso violenti scontri tra la polizia e gli studenti… Fui chiamato poco dopo per collaborare al film di Elio Petri “Un tranquillo posto di campagna” che fu girato da aprile a luglio in una villa veneta vicino Padova. Durante la lavorazione di quel film, mi lasciai crescere barba e capelli per manifestare la mia solidarietà con il movimento degli studenti che si andava manifestando in tutto il mondo.
Il 31 dicembre del 1969 morì mia madre e le certezze di una fede religiosa “progressista”, che avevo pazientemente costruite per conciliare le ribellioni giovanili con la tradizione cattolica familiare, si frantumarono di fronte all’improvvisa consapevolezza, che si manifestò come una “rivelazione”, che il pensiero religioso è una costruzione totalmente umana. Scoprii, da un giorno all’altro, di essere, a livello profondo, assolutamente ateo. L’inquietudine e il disagio che ne conseguirono, alimentati dal clima “rivoluzionario” di quegli anni, insieme a suggerimenti di amici che avevano già affrontato analoghi problemi, mi spinsero a cercare un aiuto terapeutico. Il primo contatto con la psicoanalisi avvenne nel 1970, attraverso il prof. Nicola Perrotti, presidente della SPI, Società Psicoanalitica Italiana di impostazione freudiana: mi consigliò caldamente un trattamento psicoanalitico che, dopo alcune ricerche, iniziai con il dott. Mario Rossi che mi ispirò fiducia per la pacatezza e la cordialità con cui mi accolse. Quell’inizio di terapia scatenò una intensa attività onirica con interpretazioni che però, molto spesso, suscitavano perplessità e ulteriore disagio. Intanto la mia attività professionale di architetto per il cinema proseguiva con “Nel nome del padre” di Marco Bellocchio, “Mimì metallurgico ferito nell’onore” di Lina Wertmuller, “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani, fino a “L’invenzione di Morel” di Emidio Greco, che coincise con la scoperta di quei locali in affitto che sarebbero diventati “Il Politecnico”. Vidi in quegli ambienti semi abbandonati la possibilità di realizzare quello che avevo immaginato con la mia tesi di laurea: un teatro al centro di una collettività di artisti che, nel teatro e attraverso la collaborazione tra loro, avrebbero trovato modalità di rappresentazione di sé stessi e di utilizzo della loro arte per finalità collettive. Nel 1975 il mio psicoanalista decise che l’analisi era conclusa: tuttavia il disagio che aveva determinato quella scelta continuava a persistere. In quello stesso anno collaborai per la seconda volta con Marco Bellocchio per il film “Marcia trionfale” e la nostra amicizia si consolidò. Nel 1976 curai la regia del primo spettacolo prodotto dalla cooperativa “il Politecnico teatro” che nel frattempo era stata costituita: era “La morte del dottor Faust” di Michel de Guelderode. Il successo di critica e di pubblico che lo spettacolo ottenne fece emergere in me l’idea di poter aprire un altro aspetto della mia vita professionale attraverso la creazione drammaturgica. Immaginai un laboratorio che, attraverso il teatro, affrontasse le problematiche del presente ed elaborai un progetto intitolato “Prologo” centrato sulle tematiche della malattia mentale e dell’emarginazione sociale. La mia proposta fu di fatto rifiutata dalla cooperativa che preferì seguire una linea di teatro politico di ispirazione brechtiana, sostenuta da Giancarlo Sammartano che, dopo “la morte del dottor Faust”, aveva realizzato uno spettacolo costruito su tre atti unici di Brecht e intitolato “Strasse”. Mi defilai dalla cooperativa e tornai all’architettura per il cinema collaborando di nuovo con Marco Bellocchio per la versione cinematografica de “Il gabbiano” di Chékov. D’altronde era quello il lavoro che mi dava da vivere…. E a quel lavoro, che vivevo con un senso di grande frustrazione e malessere, dedicai gran parte dell’anno successivo realizzando le scenografie di 3 film: “Il giorno dei cristalli” di Giacomo Battiato, “Difficile morire” di Umberto Silva e “L’uomo di Corleone” di Duilio Coletti. Verso la fine di ottobre del ’77, Marco Bellocchio, che aveva iniziato a lavorare con Piero Natoli alla sceneggiatura di un nuovo film che si sarebbe intitolato “Salto nel vuoto”, mi parlò di un seminario di psicoterapia, che si teneva presso l’istituto di psichiatria dell’Università che lui aveva iniziato a frequentare e che veniva condotto da Massimo Fagioli, psichiatra e psicoanalista, che aveva scritto tre libri che contenevano una dura critica a Freud e una nuova teoria sull’origine della vita psichica. Le sedute del seminario erano aperte e gratuite. Iniziai a seguirle anch’io e scoprii nuove parole che cominciarono a darmi quelle risposte che non avevo mai avuto dalla psicoanalisi freudiana: “fantasia di sparizione” “pulsione di annullamento” “inconscio mare calmo” furono i primi concetti che cominciarono a farmi capire da dove ha origine la sofferenza psichica e a farmi intravedere il percorso per superarla. Cominciò a maturare in me l’idea di una possibilità di cambiamento. Si riaffacciò l’idea del teatro come strumento di conoscenza e di rappresentazione dell’animo umano.
Al Politecnico si era liberato uno spazio che era stato prima di Ernesto Tross e poi del grafico Amedeo Gigli. Lo presi io in gestione e lo trasformai in piccolo spazio teatrale: nacque così la “sala B” del Politecnico Teatro che inaugurai il 24 settembre del 1978 con una performance intitolata “AutoRitrattAzione”. In questo titolo erano sintetizzati i tre percorsi che avrei compiuto in quell’unica, irripetibile rappresentazione che avevo progettato: un autoritratto, una ritrattazione un’azione. Il 9 maggio di quello stesso anno era stato perpetrato l’omicidio di Aldo Moro da parte delle “brigate rosse”. Io sentivo la necessità di dare un segnale di “presa di distanza” da quella nube nera che stava offuscando le aspirazioni di cambiamento e di libertà che si erano manifestate dieci anni prima. Decisi di tagliarmi la barba, che era in qualche modo simbolo di appartenenza a quel “movimento” nato nel ’68, e fare, di questo gesto, l’atto conclusivo della irripetibile performance con cui inaugurai il nuovo spazio del Politecnico e un nuovo capitolo della mia vita. Con “AutoRitrattAzione” aprii la strada per una nuova drammaturgia basata sull’irripetibilità dell’azione e sulla contemporaneità del tempo e delle tematiche. Coinvolsi amici e colleghi per proporre ognuno la propria “IndividuAzione”. Si affacciarono così sulla scena della “Sala B” del Politecnico, “zio Mario” di Mario Prosperi, “Tropico di Matera” di Antonio Petrocelli, “I Remotti sposi” di Remo Remotti, “Vergine sbilanciata” di Luisa Morandini e Carlo Vitagliano, e il mio “Risotto”, stimolato dal mio ex compagno di scuola, professore di filologia romanza e grande autore di risotti, Fabrizio Beggiato, che propose di cucinare in scena. Nell’aprile del ’79, alla galleria “ferro di cavallo” in via Ripetta, realizzai una nuova performance intitolata “Politekniade” in cui raccontavo i primi cinque anni di vita del Politecnico, mentre costruivo intorno a me una gabbia di legno e corda, in cui rimanevo imprigionato. Un po’ come l’artigiano Zì Dima Licasi, nella novella di Pirandello “la giara”, che rimane prigioniero della giara da lui stesso riparata. Nel mio caso, la flessibilità della struttura rendeva possibile la fuga: in questo modo intendevo rappresentare la mia volontà di considerare chiusa l’esperienza del Politecnico. Non fu così. Infatti dopo il ’79, anno in cui tornai all’attività di architetto per il cinema con due importanti film: “Le buone notizie” ultima opera di Elio Petri e “salto nel vuoto” di Marco Bellocchio, per il quale realizzai negli studi de Paolis l’appartamento in cui si svolge gran parte del film, e inoltre collaborai all’allestimento di una grande mostra, che avevo proposto a Renato Nicolini per il palazzo delle esposizioni, che si intitolava “la città del cinema”, nel 1980 fui costretto a tornare ad occuparmi del Politecnico teatro in quanto la cooperativa che lo gestiva si sciolse. La compagnia che avevo costituito per la sala B e che avevo denominato “teatro dello scontro” prese in gestione anche la sala A e io mi trovai di nuovo immerso nelle problematiche di gestione e programmazione. Persi di vista la decisione di chiudere con il Politecnico e interruppi anche la frequentazione dei seminari di analisi collettiva. Mi imbattei in un testo ottocentesco sull’impresa eroica dei fratelli Bandiera e decisi di metterlo in scena all’interno di una narrazione autobiografica che intitolai “io, patria, famiglia” e che andò in scena il 19 febbraio del 1981. L’intento era quello di mettere a confronto la retorica della grande storia che ci avevano insegnato a scuola con la realtà della storia privata di una famiglia borghese durante e dopo la seconda guerra mondiale. Un intento che non giunse a pieno compimento e che mi allontanò da quella ricerca sul presente e sull’unicità del tempo teatrale che avevo iniziato con “AutoRitrattAzione”. In quello stesso anno conobbi, durante le riprese del film “Ehrengard” di Emidio Greco, l’attore, allora emergente, Alessandro Haber. In quegli anni avevano invaso il mercato le segreterie telefoniche e io avevo in mente di scrivere qualcosa che mettesse in scena le ossessioni che quell’oggetto aveva scatenato. Haber mi raccontava delle sue ansie di attore in perenne ricerca di lavoro. Scrissi un testo su un attore in cerca di lavoro e su un autore in cerca di ispirazione e nacque “Segreteria telefonica” che debuttò al Politecnico il 16 gennaio 1982 e fu poi rappresentato al festival di Asti, al teatro Gobetti di Torino, al teatro Niccolini di Firenze e al teatro Quartiere di Milano. L’anno successivo iniziò l’avventura internazionale di “Risotto” a Parigi e ad Amsterdam. Nel 1984 decisi di mettermi alla prova nella regia cinematografica. Scrissi con Stefano Rulli una sceneggiatura che prendeva spunto da un’immagine che Alessandro Haber aveva visto in una strada del centro di Roma: un uomo spingeva una carrozzina al cui interno c’era un fantoccio… Nacque così “La donna del traghetto” che fu girato nel 1985 e fu selezionato per la “sémaine de la critique” al festival di Cannes del 1986. Mi ritrovai lì con Marco Bellocchio che presentava alla “quinzaine des réalizateurs” il suo “diavolo in corpo” che fece scandalo in Italia perché realizzato con la collaborazione di Massimo Fagioli che fu accusato dal produttore del film di aver plagiato Bellocchio. In quello stesso anno cedetti la gestione del teatro a Mario Prosperi e ad Ennio de Dominicis. Nel 1987 ripresi a frequentare i seminari di analisi collettiva da cui, due anni dopo, venne lo spunto per tornare al teatro. Era uscita la quinta edizione del terzo libro di Fagioli, “psicoanalisi della nascita e castrazione umana”, preceduta da una premessa, scritta in forma di dialogo tra l’autore e l’analisi collettiva, in cui veniva narrato, nello scontro tra terapeuta e paziente, il percorso di cura, formazione e ricerca che era stato compiuto in quasi 15 anni di analisi collettiva. Io da tempo pensavo ad una nuova esperienza teatrale che avesse, come elemento di riferimento al tempo presente, una macchina fotografica “Polaroid”, che, all’epoca, era l’unico strumento che premetteva di avere un risultato immediatamente visibile di uno scatto fotografico. La polaroid poteva essere il mezzo attraverso cui sottolineare l’irripetibilità dell’evento a cui si stava assistendo ma anche rappresentare. in chiave immaginaria, la dimensione pulsionale di chi la utilizzava. Scrissi un testo in cui narravo le difficoltà e l’evoluzione del mio rapporto con le donne come lo avevo vissuto e come lo vivevo, in quel momento, con la mia compagna. In scena 4 personaggi: lo psichiatra interpretato da Marco di Stefano, la paziente (analisi collettiva) interpretata da Brigitte Christensen, io e la mia compagna Lia Morandini.
Andammo in scena al teatro Politecnico nel febbraio del 1990.

ilmomentodiu Variazioni sulla torre Einstein


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