Il Tractatus logico sintattico, la forma trasparente della Villa Adriana, si pone con cognizione di causa nell’ambito dei trattati di architettura, ossia in quella serie di scritti teorici sulla disciplina che individuano e discettano sulle nozioni di base da cui un architetto non può prescindere, se vuole dirsi ed essere chiamato tale.
Il suo autore, Pier Federico Caliari, ne è pienamente consapevole e, in apertura di introduzione, dichiara, in maniera inequivocabile, che il suo studio è rivolto agli architetti e non ha carattere interdisciplinare.
Non può avere questo carattere perché l’oggetto del Tractatus è la «composizione architettonica», perché «la composizione è l’aspetto originale del processo ideativo dell’architettura», essa è l’essenza dell’architettura: se la composizione non esiste allora non esiste neppure l’architettura. È soltanto riconoscendo l’esistenza della composizione architettonica che si può definire una realizzazione edilizia una vera architettura.
Il cuore del Tractatus è dunque ciò che Caliari ritiene il cuore dell’intervento compositivo: la forma dell’architettura; e, per dare maggiore enfasi a questo cuore egli forza la scrittura evidenziando col corsivo l’aggettivo che accompagna il sostantivo forma e cioè vera (corsivato, vedremo perché).
Per dimostrare l’intento enunciato Caliari sceglie un’architettura di Roma Imperiale: la Villa Adriana di Tivoli, in quanto la considera un paradigma assoluto per il tema della composizione architettonica. L’obiettivo che vuole raggiungere è «illustrare la vera forma di Villa Adriana» studiandone la geometria e la sua applicazione nel processo ideativo. Con il rigore intellettuale proprio di un trattatista egli premette di essere consapevole «di poter restituire un quadro parziale, poiché parti della Villa sono ancora da scavare», tuttavia chiarisce che non è questo il problema quanto il fatto che la sostanza architettonica della villa è proprio uscita dagli orizzonti della ricerca ed è a questo che lui intende porre rimedio.
Il mio contributo intende esaminare la riflessione teorica con il quale Caliari ha inteso porre rimedio all’uscita della sostanza di un’architettura dagli orizzonti della ricerca. Essa è espressa principalmente nella premessa, compendio pensato e ri-pensato al termine della stesura del testo effettivo, ma sono molteplici i riferimenti a quanto esposto nella prima parte che, in alcuni punti, consentono di chiarire ancora meglio quanto quasi sempre efficacemente condensato in premessa. Il mio intervento, pertanto, non riguarderà la seconda parte del Tractatus in cui Caliari analizza nel merito le centralità che reggono la composizione e la sintassi della Villa Adriana.

Il compito del Trattato
La materia del Tractatus è l’Architettura.
L’ autore ricorda costantemente questo assunto, in modo esplicito o sotteso, per tenere alta l’attenzione del lettore, per non farla sviare sull’esito di problematiche ricostruzioni archeologiche del dov’era e com’era piuttosto che su curiosità archivistico documentarie oppure sull’approfondimento pensoso del contesto storico in cui è stata costruita, riscoperta, restaurata l’architettura. In proposito Caliari afferma che il concetto di forma, inteso come sistema di regole di organizzazione degli elementi della composizione, è praticamente estraneo alla trattazione classica, la quale è più propensa a indagare la sequenza costruttiva delle varie parti e la sua datazione.
Il compito del Tractatus è linguistico: liberare da proposizioni coordinate, subordinate, il linguaggio della composizione architettonica, al fine di riportarla alla chiarezza semantica che le è propria e di eliminare (quantomeno di confinare a una dimensione tollerabile) l’esperanto che ha preso il sopravvento su di essa per motivi concorrenti, i cui principali possono essere riconosciuti nel dilagare esorbitante della normativa tecnica che disciplina la costruzione e nella esasperazione del postulato della redditività finanziaria quale extrema ratio di qualsiasi realizzazione edilizia. Ecco perché Caliari si preoccupa, fin dalle prime battute, di rimarcare che ciò che distingue l’Architettura dall’edilizia è l’esistenza di un processo ideativo, differente e primigenio rispetto al processo realizzativo tout court.
L’edilizia, la costruzione, è un fatto di esperienza che può essere opera di maestranze dirette, anche solo burocraticamente, da un capocantiere o da un direttore lavori). Al contrario l’Architettura esiste perché nel punto di origine della retta temporale che costituisce l’esistenza di ogni architettura l’architetto, dall’inizio, pensa, idea di realizzare una forma. Tuttavia Caliari è rigoroso nell’avvertire che va impedita ogni semplificazione: la capacità dell’architetto di pensare non è ancora la composizione; l’idea di una forma, infatti, può essere copiata limitandosi alla variazione su tema.
Dopo questa avvertenza Caliari è quindi in grado di formulare la prima acquisizione teorica del Tractatus: ciò che è composizione è solo l’aspetto originale. Qui dunque siamo nel cuore della riflessione che ha portato alla definizione. Cosa significa “originale”? Io opto per il significato di opera che è pensata direttamente da quell’architetto; che è autentica, ma anche che ha carattere proprio e non deriva da modelli, ma piuttosto li crea e li determina ponendosi come riferimento. Quando studiandola, ammirandola, si coglie questo aspetto in un’architettura allora si è certi che ci si confronta con la composizione architettonica.
Certamente l’azione del pensiero progettante dell’architetto è svolta anche per rispondere a una domanda di funzione sia essa latente o manifesta, ma il compito del Tractatus non consiste nell’indagare sul come giudicare la qualità della risposta fornita a questo interrogativo, bensì a evidenziare la domanda centrale che ogni architetto si pone, si deve porre nel momento in cui, all’inizio, pensa di realizzare una forma. La domanda primigenia è: esiste o non esiste un principio ordinatore come fondamento della composizione architettonica e quindi della sua realizzazione materiale?
A questa domanda sono immediatamente correlati altri interrogativi che suscitano una ricchezza di risposte differenti per ciascuna architettura che potrebbe essere esaminata: perché si dovrebbe parlare di unità compositiva? Perché si dovrebbe scomodare un principio ordinatore unitario, quando ogni elemento architettonico è un fatto a sé stante?
La scelta operata da Caliari della Villa Adriana come architettura esemplare – l’autore la definisce paradigmatica – per riflettere sull’essenza della vera forma in Architettura, esalta la pregnanza della domanda primigenia e degli interrogativi correlati. Caliari non dimentica di sottolineare, da progettista pratico e non solo teorico, come il momento di concepimento della forma generale di Villa Adriana precede le trasformazioni, alcune anche imponenti, che il suolo ha subito durante la costruzione della Villa stessa nel II secolo dC. Eppure, nonostante il suo status di architettura in rovina, Villa Adriana è capace di divulgare in maniera immediata il cuore teorico dell’Architettura anche a chi non è architetto e a prestarsi a essere proprio in modo materiale come ponte tra la gnoseologia propria della disciplina e la gnoseologia propria di altre discipline fino a quella propria della non specializzazione disciplinare, in altre parole alla comprensione di chi indaga il conosciuto nell’ambito dei suoi limiti di preparazione culturale, tutti degni del massimo rispetto.

«quando si parla di principio ordinatore, e ancora di più quando esso è riferito all’esperienza greco-romana, ci si confronta subito con un orizzonte di forme che sottendono regola ed equilibrio. Il pensiero ci porta immediatamente al sistema ippodameo o a quello cardodecumanico nella distribuzione tra volumi costruiti e rete stradale. Vengono in mente i ragionamenti sulla città ideale e sulle città di fondazione, in cui il principio ordinatore è associato alla rappresentazione di particolari assetti statuali. E pertanto la forma maestra deve essere regolare anche in un sistema basato sulle irregolarità come è appunto Villa Adriana. Ma se invece, coerentemente con la struttura complessa della villa, la figura geometrica capace di chiuderne dentro di sé i contorni, i confini della villa-città, non fosse una figura regolare, ma fosse invece una figura irregolare e aperta? In questo caso, l’individuazione di una tale forma avrebbe lo stesso potere simbolico di una forma regolare, come un quadrato, un cerchio, un triangolo? Può un trapezio scaleno o un’altra forma non sottoposta al principio della simmetria avere lo stesso carisma di un quadrato? Perché solo una forma regolare riesce ad essere espressione convincente dell’esistenza di un principio ordinatore mentre una forma geometrica irregolare non riesce a trasmettere questo principio?»

Aver individuato l’architettura paradigmatica per far comprendere al lettore in modo piano, capace di indirizzare la sua comprensione in un percorso agevole e privo di ostacoli, costituisce di per sé un importante risultato, il the last but not least, del Tractatus.

Cos’è la forma in Architettura?
L’oggetto del Tractatus è rimettere al centro della ricerca teorica, della discussione tra gli architetti, la sostanza dell’architettura, ossia la composizione architettonica, ossia la forma dell’Architettura. Il Tractatus intende rispondere alla domanda di come si riconosce la forma in Architettura per dare in conclusione la definizione di cosa è la forma in Architettura.
Mentre l’obiettivo del Tractatus, che, come ho premesso, non tratto in questo contributo, è: individuare quegli edifici di Villa Adriana che possono essere considerati i punti notevoli della topografia dell’insieme; individuare quelle linee che, congiungono i punti sopra individuati, definiscono le loro giaciture, stabiliscono i loro orientamenti, attribuiscono proprietà.
Caliari, proprio per rispetto all’oggetto che ha scelto di esaminare con il Tractatus, impone a ciascun architetto di confrontarsi con la complessità della composizione architettonica. La convinzione è che qualsiasi complessità si può studiare solo con metodo, in nessun caso può essere sufficiente l’intuito o il talento. Una chiarificazione necessaria per comprendere perché Caliari ribadisca costantemente che solo gli architetti possono comprendere l’Architettura, perché solo loro hanno studiato (e, mi permetto di aggiungere, devono continuare sempre a studiare) il linguaggio, la sintassi e la lessicologia, dell’Architettura.
Egli, dunque, pone in premessa quale per lui è il metodo con cui riconoscere la forma. Esso si esplicita in due operazioni – la cui implicazione, profonda e davvero innovativa, affronto nel paragrafo successivo – che trattano della descrizione delle relazioni:
– la descrizione delle relazioni tra gli elementi della composizione, che quindi sono molteplici e vanno individuati e non sono dati,
– la descrizione delle relazioni tra detti elementi e “il tutto a noi noto”.
Questi due passi metodologici per Caliari disvelano non una forma qualsiasi, ma quella vera. Il corsivo con cui è spesso evidenziato l’aggettivo – artificio della distinzione materiale del carattere, traslitterazione degli strumenti della retorica orale alla scrittura anche digitale – ha lo scopo di aiutare il lettore architetto a non dimenticare mai, nel prosieguo della narrazione del Tractatus – e, neanche tanto larvatamente, nel prosieguo dell’attività professionale di ciascuno –, che la forma dell’architettura non è data, ma va riconosciuta, e che il metodo da utilizzare per riuscirvi consiste nell’operazione maieutica di far emergere le relazioni.
Nel presentare le caratteristiche proprie della forma, può essere per la preoccupazione di volersi spiegare al meglio, Caliari sceglie la strada dell’essere didascalico e fornisce un elenco di dieci proposizioni che non appaiono ordinate gerarchicamente come forse aveva in mente.
Provando a forzare la mano all’autore a me sembra che le caratteristiche principali possano essere ridotte alla proposizione seconda: «la forma è un’unità, un sistema composto da elementi in rapporto tra loro e tra loro e l’unità»; quindi alla quarta: «la forma tende a una struttura, a un ordine, a una organizzazione interna delle sue proprietà specifiche; tali proprietà possono essere riconoscibili e condivisibili all’esterno»; infine alla terza: «la forma sottende un’organizzazione sintattica dei suoi elementi (leggi posizionali)». Le restanti sette proposizioni sono a mio avviso meno portanti, secondarie, nella costruzione teorica intrapresa dall’autore.
Per Caliari il metodo da seguire per riconoscere la forma dell’architettura è legittimato dal postulato che la forma prima è un atto del pensiero, poi un’architettura costruita.
Per l’autore, infatti, il primo concetto da tenere presente nello studio della forma dell’architettura è quello propedeutico di atto fondativo. Esso viene descritto come un’azione svolta a livello di pensiero progettante, dove degli elementi vengono ordinati – dis-posti – nello spazio; un ambiente che Caliari sostiene essere un paesaggio complesso. Per l’autore l’atto fondativo ha in sé già tutti i caratteri del processo di definizione della forma. Infatti, il processo di definizione è generativo sia per quanto riguarda la produzione di nuovi elementi sia per quanto riguarda una nuova disposizione degli stessi senza mutarne il carattere essenziale.
Questo significa equiparare la verità della forma alla definizione del segno e questa equiparazione avviene con l’attribuzione di proprietà posizionali agli elementi della composizione sul suolo astratto della mente dell’architetto. Diventa allora logicamente comprensibile che il successivo passaggio, essenziale, sia l’individuazione degli elementi compositivi della forma. Essi sono:
– ordinazione di elementi in rapporto di reciprocità dimensionale;
– un motore generativo che articola il rapporto tra questi elementi;
– codici di comunicazione visiva che consentono la condivisione di questi elementi.
Grazie all’esplicitazione del metodo il Tractatus può definire in modo pregnante l’oggetto che gli interessa: cos’è la forma in architettura?

«La forma è una sostanza fenomenologica che consiste in una struttura (sintassi di elementi) che comunica attraversa un codice visivo di condivisione e regola la propria trasformazione mediante un motore di gestione delle proporzioni e delle relazioni tra le parti e tra le parti e il tutto.»

Con la descrizione del metodo da seguire per riconoscere la vera forma Caliari può quindi supportare e sostenere che la composizione architettonica è il «sapere che appartiene solo e unicamente all’architetto, che sta nel progetto e nella sua rappresentazione, prima mentale e poi disegnata, e che anticipa la costruzione». In questo modo chiude il cerchio aperto con l’affermazione iniziale che il Tractatus è rivolto agli architetti: la con-sistenza delle architetture altro non è che «l’astrazione presente nel pensiero progettante, prima della trasformazione del disegno in materia».

La novità del Trattato: la quinta dimensione
La vera forma – che per Caliari è «il volto» della forma – si riconosce, dunque, attraverso i codici di comunicazione visivi che permettono alla forma di tras-formarsi (uscire da) dal pensiero progettante nel (per entrare nel) pensiero costruttivo, nella connessione di punti e linee, sullo sfondo di un piano di percezione, di un territorio figurato in astratto. Più la vera forma si trasmette attraverso processi di riduzione grafica più è aderente all’atto fondativo. Questo significa che l’intrinseca struttura della forma implica la presenza di un osservatore che ne percepisce il suo equilibrio stabile.
Quello che Caliari dà forse per scontato, ma che, invece, è meglio esplicitare, è che detto osservatore si colloca in una determinata posizione di osservazione di quella architettura in un determinato momento. Entrambe le posizioni sono per loro natura diverse da quelle immediatamente a destra e/o sinistra nel piano dello spazio, o sopra o sotto nella sezione dello spazio, o vicino o lontano nell’assonometria dello spazio e anche immediatamente precedenti e/o successive nella linea del tempo. Pertanto il punto in cui si colloca l’osservatore è unico e irreplicabile.
Si sta parlando della descrizione delle relazioni tra gli elementi della composizione, molteplici e da individuare, e «il tutto a noi noto» che costituisce l’essenza del metodo con cui riconoscere la forma in Architettura.
«Il tutto a noi noto» rappresenta l’insieme delle tre dimensioni spaziali: lunghezza, larghezza e profondità, con la quarta dimensione: il tempo. Va chiarito però che «il tutto a noi noto» comprende completamente solo le tre dimensioni spaziali, mentre la quarta, quella temporale, può essere compresa dall’essere umano solo in modo parziale: egli coglie il tempo solo come cambiamento dello spazio che ci circonda e in cui ci muoviamo.
Se ci si riferisce a una architettura in quest’ottica è evidente, forse anche intuitivo, come l’architetto comprenda il tempo grazie agli stadi di avanzamento della sua costruzione che esplicitano il cambiamento dello spazio che circonda l’architettura: a un prima – dove l’architettura progettata fisicamente non esisteva – segue un durante – dove l’architettura progettata è in metamorfosi, come avvolta in un metaforico bozzolo –, a sua volta sempre composto da un prima e da un dopo costituito dal susseguirsi degli stadi di avanzamento del processo di realizzazione, infine un presente finale in cui l’architettura è inaugurata, è consacrata, è pronta a essere vissuta.
Tuttavia il tempo continua a incidere e così quella stessa architettura finita non cessa di essere un susseguirsi di prima e dopo che possono portarla anche allo stato di rovina, definizione in cui genericamente si incasella, per esempio, Villa Adriana.
A questo proposito va sottolineato come nel momento in cui Caliari ha scelto Villa Adriana come ambito di ricerca – riferendosi al momento in cui la villa era in fase ideativa originale, espressa nel disegno di progetto, un momento che precede la rovina dell’architettura di qualche centinaio di anni – egli sia arrivato, di fatto, a considerare oltre le altre quattro anche la quinta dimensione, ossia la situazione in cui l’osservatore influenza il sistema osservato. Situazione di cui costituisce esempio migliore la constatazione che l’elaborazione della comprensione del Tractatus che io sto svolgendo in questa sede, qui e ora, è un momento unico e irreplicabile, così come sarà momento unico e irreplicabile l’interpretazione del mio scritto da parte di qualunque lettore. Dallo stato di salute fisica fino al livello di conoscenza di storia e teoria dell’architettura ogni minima variabile dell’osservatore influenza il sistema osservato, in questo caso l’architettura di Villa Adriana scelta da Caliari come oggetto del suo Tractatus per discutere di cosa è la forma in Architettura.
È molto semplice riconoscere nel Tractatus i passaggi in cui si descrive la situazione in cui l’osservatore influenza il sistema osservato. Infatti, in più occasioni è sottolineato come il modo in cui nel tempo sono stati restituiti graficamente i rilievi di Villa Adriana abbia influenzato e influenzi coloro che, successivamente, si sono accinti, si accingono, si accingeranno, a confrontarsi con la medesima operazione di restituzione del rilievo. Per tutti l’esempio dell’orientamento planimetrico della Piazza d’Oro per il quale Caliari nota come i rilievi di Francesco Contini (1668) e di Giambattista Piranesi (1781) restituiscano «una giacitura isoforme a quella del quartiere residenziale, mantenendo l’ortogonalità con lo stesso», quando, invece, grazie alla Pianta degli Ingegneri (1906) e al fotoplano base della Carta Tecnica Regionale del Lazio (consultazione 2003) si è constatato come la Piazza d’Oro presenti «un diverso orientamento e precisamente un’inclinazione di quattro gradi verso l’interno della Villa».
Se si evita di parlare di “errore” di rilevazione da parte di Contini e Piranesi, perché privi della strumentazione tecnica odierna, ma si considera la loro posizione di osservatori del sistema osservato Villa Adriana, si comprende pienamente quanto il Tractatus rifletta sul concetto di quinta dimensione e quanto questa sia parte costitutiva della riflessione teorica di Caliari.
L’attenzione di Caliari alle differenze di rilievo compiuti da Contini e Piranesi è oltremodo importante perché: da un lato non cade nel tranello di discutere sul sesso degli angeli cercando di interpretare il motivo per cui Contini e Piranesi «abbiano deciso di ingannare la lettura della giacitura delle fabbriche adrianee», pur conoscendo bene i punti in cui il loro rilievo è fisicamente inesatto; dall’altro sottolinea un classico quale il concetto di mutamento di paradigma di Kuhn: se un “maestro” ha scritto, disegnato, rilevato qualcosa e tu che vieni dopo ti accorgi che è un errore è incredibile come la sudditanza al parere che gli altri possano avere di te se dirai una cosa completamente diversa sia così forte da permettere la perpetuazione dell’errore. Piuttosto di non essere creduto continuo a ripetere quello che gli altri hanno detto prima di me; nel caso di Piazza d’Oro di Villa Adriana perpetuo l’errore di giacitura.
In pratica Caliari dimostra quanto sia a-temporale la frequenza con cui si decide che possa non essere ritenuto importante migliorare, progredire, far avanzare la conoscenza in Architettura. E questa affermazione è significante per far comprendere in modo agevole – con un ossimoro posso dire per far toccare con la mente – quanto sia presente nell’iperspazio umano la situazione dell’osservatore che influenza il sistema osservato, ossia la quinta dimensione.
A primo acchito nel Tractatus la quinta dimensione non è nominata espressamente, ma, quando Caliari individua il contributo della Gestalt nella capacità di esaltare il carattere biunivoco della forma, e afferma con cognizione di causa che «la forma è descritta non come un’entità in sé, ma come una relazione tra un’unità e un campo di percezione» di fatto sta presentando in modo chiaro gli elementi che compongono la quinta dimensione: sistema di osservazione e osservatore.
Io sono convinto che se si riconosce nel Tractatus il riferimento alla quinta dimensione si risolve senza problemi la critica, adombrata da Caliari, che la verifica di quanto da lui argomentato non possa prescindere dal confronto con il risultato finale del progetto, la costruzione, molto di più della motivazione da lui addotta; ossia che Villa Adriana è una rovina troppo rovina da non permetterne ricostruzioni volumetriche credibili a cominciare dal rapporto forma-funzione.
Il metodo con cui Caliari riconosce la forma in Architettura consente di comprendere come, di fatto, «il tutto a noi noto» comprenda anche ciò che potrebbe esistere e che forma un «tutto a noi ignoto»; consente di comprendere la situazione in cui l’osservatore influenza il sistema osservato, una dimensione “extra” che solo in apparenza l’essere umano non può “vedere”. Per Caliari la forma è un’entità che si genera e che sussiste nell’equilibrio tra le proprietà dell’oggetto e le proprietà dell’osservatore. Non per nulla l’autore dichiara che la forma è un’entità con una sua struttura interna percepibile attraverso i processi cognitivi, comunicabile e trasmissibile secondo una codificazione condivisa. Per Caliari le leggi della forma sono leggi di organizzazione che tendono a una struttura che si articola attorno a un principio ordinatore, un sistema di regolazione, cioè un processo. Questo sia nel rapporto con lo sfondo sia nel rapporto con la materia. La forma è una unità composta da elementi tra loro ordinati e organizzati; una unità che si trasforma da ideale a materiale, da pensiero/progetto a costruzione.
Non solo, per rispondere alla domanda chiave sottesa al Tractatus – se è comunque possibile comprendere l’atto fondativo che ha generato l’architettura e risalire quindi alla vera forma – Caliari va ben oltre una risposta banale che prevede la semplice sommatoria di casi empirici – quell’autore e quell’altro sono arrivati alla stessa conclusione pur partendo ciascuno dalla posizione e dal momento di osservazione unico e irreplicabile – suggerendo che la risposta consiste nell’applicare il metodo del «processo a ritroso nella lettura della forma, un processo di decifrazione, di decodificazione di ciò che manca all’evidenza dello sguardo rivolto alla consistenza archeologica». Un processo in cui gli obiettivi sono costituiti dalla ricostruzione del senso – obiettivi estetici e funzionali – e del processo della forma.
Per inciso il processo a ritroso è un metodo applicato anche per la ricostruzione della forma urbana della città medievale elaborato da Enrico Guidoni nella seconda metà del Novecento. Forse a dimostrazione che è esistita (continua a esistere ora?) una scuola italiana di architettura capace di riflettere teoricamente sulla disciplina con il disperato ma caparbio obiettivo/convinzione che fosse (sia?) possibile partire dalla teoria per arrivare a una pratica di “buona” architettura, di “buona” urbanistica e che, a prescindere dalle pressioni esterne di qualsiasi tipo esse siano, sia possibile asserire che se non c’è buona archiettura è perché non si sono formati/preparati buoni architetti.
Azzardo a dire che il restauro è l’esempio della quinta dimensione in architettura. L’architetto è l’osservatore che influenza il sistema osservato, l’architettura da restaurare, quantomeno in due momenti. Il primo è il momento in cui l’architetto decide come dovrà avvenire il restauro dell’architettura in rovina: analizza cosa e come e perché quell’architettura è arrivata a quel punto di degrado in relazione alla sua preparazione, alla sua professionalità o superficialità, alla sua ideologia, alle costrizioni di tempo e di costi e di risorse con cui deve fare i conti. Qualsiasi suo collega potrebbe decidere altrimenti innescando una storia diversa per quell’architettura. Il secondo momento è quello in cui stadio di avanzamento dopo stadio di avanzamento l’architetto conduce il lavoro di cantiere di restauro determinando così le prossime evoluzioni delle tre dimensioni spaziali della stessa e la quarta in cui questa evoluzione potrà in qualche modo essere percepita.
In nessun modo però l’architetto potrà sapere, cioè vedere, cosa sarebbe potuto succedere se avesse preso una qualsiasi differente decisione un momento prima, un momento dopo: l’ucronia in architettura non esiste.
A mio avviso, la riflessione sulla quinta dimensione permea l’intero Tractatus, tutto il suo approccio teorico al cosa è la forma in Architettura ed è questa presenza che costituisce la assoluta novità, modernità, freschezza del Tractatus. È per questa presenza che è possibile apprezzare appieno l’intento dello studio di Caliari:
«Considerando che l’architettura si esprime con il modo indicativo e non con il modo condizionale, questo studio ha come obiettivo principale quello di illustrare la vera forma di Villa Adriana, intendendo con ciò una descrizione delle relazioni tra gli elementi della composizione e tra questi e il tutto a noi noto, che non possa essere soggetta a interpretazioni, ma solo a considerazioni di presa d’atto.»

Conclusione. Un’intento costruttivo
L’attenzione che Caliari rivolge alla questione della vera forma di Villa Adriana, che giustifica l’aver scelto questa architettura di Roma Imperiale, è l’aporia – il problema le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione – che l’autore ritrova nel contesto stesso della ricerca: ossia che la forma «non compare [mai] come tema di approfondimento scientifico né tra le novità né tra le prospettive della ricerca» per mancanza di studi seri avviati da parte degli architetti.
La constatazione, invero una accorata denuncia, di una vera e propria abdicazione dell’architettura rispetto a ciò che Caliari neologizza come adrianologia – corpus scientifico-letterario di tutti i contenuti legati alla figura dell’imperatore – sembra lasciare intendere che per l’autore ci si trovi davanti a una abdicazione tout court: se cioè l’oggetto della riflessione sulla composizione architettonica fosse stata un’architettura diversa da Villa Adriana, comunque ci si sarebbe trovati di fronte a un altro assordante silenzio degli architetti sul tema della composizione architettonica; e se se ne fosse scelta una terza il silenzio avrebbe riguardato anche quella.
Lo sforzo ermeneutico che Caliari compie per spiegare questa assenza riscontra due ordini di problemi.
Il primo è l’ignavia dell’architetto – questo sostantivo tranchant è mio non dell’autore – ossia l’indolenza del ricercatore verso l’oggetto della sua ricerca: pochi, e fugacemente, prima di lui hanno accennato alla particolarità della forma di Villa Adriana perché, dopo tutto, detta forma non è altro che l’adeguamento alla morfologia del sito oppure semplicemente non esiste.
Il secondo, invece, è più devastante: la negazione moderna della a-temporalità dei principi delle azioni del pensiero progettante, della loro indifferenza a qualsiasi tipo di progresso, espresso nel XXI secolo dalle nuove modalità di controllo digitale e tecnologico dei processi di definizione della forma che Caliari asserisce con forza non sono mai cambiati perché sono essi il fatto specifico dell’architettura, sia antica sia contemporanea.
Un non detto che può essere esplicitato per rafforzare il suo assunto credo possa riguardare uno degli argomenti forti di qualsiasi manuale di storia dell’architettura, quantomeno occidentale – anche se sembra che in questo tempo di globalizzazione la rivoluzione informatica stia riuscendo nell’obiettivo della reductio ad unum della cultura architettonica prodotta dal genere umano –: l’architettura “classica”.
La continua “riscoperta” dei principi dell’architettura classica, intendendo con questa un non bene identificato calderone di architettura greca, ellenistica e romano imperiale, dove sono mescolati alla rinfusa il Partenone di Atene del V secolo avanti Cristo con appunto la Villa Adriana del II secolo dopo Cristo, unificando come se niente fosse sei/sette secoli di generazioni umane, commettendo il grave errore dello schiacciamento temporale, sarebbe il caso di considerare che forse non è mai avvenuta per una passione per i revival, quanto per il riconoscimento che la ricerca di altri principi forse non aveva portato verso un’altra direzione – qui Caliari mi correggerebbe in quanto è chiaro nell’affermare che il termine direzione non fa parte del lessico dell’architettura – davvero significativa per l’Architettura e, ancora: forse la grande ammirazione che proviamo per architetture di altri periodi storici è determinata dal fatto che riconosciamo che le azioni del pensiero progettante, per esprimersi con le parole di Caliari, sono state in fin dei conti le stesse.
L’abdicazione dell’architettura denunciata da Caliari, in conclusione, è un problema di imbarbarimento dell’educazione dell’architetto: dove la composizione architettonica può essere esclusa (quantomeno in Italia) da corsi di studio come la conservazione o il paesaggio pur consentendo l’iscrizione all’albo degli architetti grazie al DPR 328/2001; dove migliaia di architetti sono declassati a ideatori ed esecutori del diritto urbanistico, branca del diritto amministrativo, quindi a una formale adesione alla giurisprudenza in cambio di un diffuso benessere occupazionale; dove la radicale diminuzione della possibilità di costruire architettura per via dell’espansione incontrollata dell’edilizia ha portato alla disperata ricerca in stile new age di nuove discipline di riferimento, dalla sociologia all’economia in spregio alla composizione architettonica vista come materia astrusa e perché no? esoterica!


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