Gli anni del progetto di sé, quando vengono riportati alla memoria, reclamano il portato del seguito in cui le conferme non furono prive d’autocritica. La carica utopica degli anni del progetto di sé ne fu appannata. Emerge, quindi, il realismo di ciò che accadde. Nel diverbio continuità/discontinuità, emerse la discontinuità come impossibilità della continuità.
Pier Paolo Balbo

Introduco la seguente tabella, elaborata a Milano negli stessi anni ‘2000 in cui si fece il seminario di Purini documentato da Rassegna. Riporta la scansione delle discontinuità epocali che una visione “contestuale” della progettazione urbana riscontra nella storia delle trasformazioni delle città.Cerano gli anni in cui facemmo a Milano il Ph. D. in progettazione architettonica e urbana, elaborandone i principali concetti di biografia e metabolismo urbano, ripensando, in termini di progettazione urbana, le tesi di Françoise Choay degli anni ‘69/’70 per Architecture d’Aujourd’hui ed i successivi testi, Espacements. E Connexions. Detti concetti, orientano le ricerche relative alle trasformazioni delle città europee dal medioevo ad oggi, secondo le plurime discontinuità che accaddero in Europa dal quttrocento ad oggi. I quali mostrano una implicazione dialettica strutturalista delle concettualizzazioni pregresse, sistematizzate nei relativi paradigmi entro paradigmi mai prima pensati. Cosicché la modernità incontra di nuovo i problemi affrontati alle soglie date. E li inquadra in altra direzione di possibili sviluppi. Questa discontinuità fu affrontata dai ventenni romani negli anni ’60. Sostengo che nel diverbio continuità/discontinuità proposto da Pernici, s’inscrive nel seguito del tempo vissuto dalle società, e così memorizzato husserlianamente, – rammemorazione per l’esistenza della cronaca inobliabile -, la discontinuità di una scelta e di una strategia. Non s’interrompe la successione delle generazioni. Né la sincronia dei molti progetti che coesistono nell’opera che procede al futuro. Né la diacronia dell’in¬sieme giudicato nel seguito. Perciò è entro il seguito ininterotto delle generazioni che si attua la presa di distanza dal passato prossimo e la discontinuità. Quindi la dialettica delle “utopie”. Cosicché, quelle cui la tecnica ha conferito “ragione”, incidenza sulla realtà, abbattendone la carica utopica nel realismo del possibile, si affermano . Entro tale “storia”, avviene la discontinuità. Lo si percepì subito nel corso della prima guerra mondiale e della rivoluzione che ne fu effetto. La caduta degli imperi, la rivoluzione russa. La democrazia nel socialismo in Europa. Così si annuncia il confronto con la memoria del passato, come “presa di distanza”. Di fronte ad una scelta obbligata si trovò chi visse i vent’anni negli anni sessanta non solo a Roma. Lo dico qui con le parole di Ciucci. Che introducono il diverbio tra tecnico e politico nel modo consapevole del XX secolo.
Siamo chierici o no ? Julien Benda nel libro del ’28 “Il tradimento dei chierici” sollevava già allora la questione, se l’uomo di cultura debba impegnarsi nella vita politica oppure no. Non ci interroghiamo più sul ruolo dell’intellettuale, quello che negli anni venti Antonio Gramsci individuava nell’intellettuale orga¬nico. Il tradimento compiuto dai chierici è oggi quello di essersi trasformati in intellettuali impegnati solo nel proprio particulare.
Ma forse sono andato completamente fuori argomento, anche se quel tema è parte integrante della mia formazione negli anni sessanta, quando, ancora studente, ho sentito la necessità di uscire da una facoltà rimasta chiusa e tradi¬zionale non ostante la presenza di nuove figure. La rottura della continuità, per me, è stata l’uscire da quel mondo accademico romano. Innazitutto, la scelta è stata per la rottura della continuità, nella controscuola che ha concretato l’uscire da quel mondo accademico. Perciò la keyword è: controscuola. Parola chiave o insegna di ciò che stava davvero a cuore: la scuola. Non la pratica del mestiere. La scelta della modernità, non fu senza condizioni. Il termine chiave, indica il modo colto di prendere la scuola nel momento di una discontinuità radicale che mette l’autorità della scuola in dubbio, cioè in critica. E l’allievo deve prendere partito mentre ascolta la lezione, mentre apprende. Sono due le istanze non coincidenti di tale di tale prendere partito: l’una prendere le distanze da ciò che l’insegnante chiede di imparare; l’altra, contrapporre una propria posizione. L’una è improntata al realismo, l’altra all’utopia. L’una reclama una presa di contrapposizione immediata, l’altra una strategia che deve contemplare il lungo termine. Di fronte a questo diverbio furono due le tensioni che agitarono l’azione, interferenti piuttosto che sinergiche: Una scelta politica, ed una scelta disciplinare. Lo dico con le parole di Muntoni e Cellini:
Ricordo che per tutti noi fu un’esperienza fondamentale, la cultura marxista. Dopo l’occupazione del ’63, ci rendemmo conto che noi quella cultura, non la conoscevamo; siamo andati alla libreria “Rinascita” e abbiamo acquistato e cominciato a leggere tra noi ad alta voce alcuni testi. Ma non ci siamo iscritti al partito comunista. Non ancora, perché prima di questo passo, volevamo trovare una nostra autonoma posizione sull’architettura. Ci siamo iscritti al partito più tardi, negli anni ’70, ma non per cercarvi la rivoluzione permanente. Il nostro obbiettivo era ormai diverso, avere un punto di riferimento che riguardasse l’impegno alla costruzione di una società di tipo socialdemocratico…[d’altra parte n.d.r.]…lo studio sul linguaggio, sulla semiologia, sulla ”teoria dell’informazione, divennne un approfondimento essenziale. Alessandra Muntoni.
Nel mio studio, [fondato nel 1964 a via monte Zebio] e nel GRAU che era il nostro principale riferimento, combinavamo una estremistica adesione alla critica marxista con i testi della scuola viennese (Riegl) del Warburg (Panofsky etc.), o per altri più recenti (penso al cruciale “I principi architettonici nell’Umanesimo” di Rudolph Wittkover); così arrivammo a concentrare la nostra attenzione sul primo rinascimento (affascinati dalla sua cristallina esattezza; poi su Kahn e Ledoux ecc…; sulla geometria, sui solidi, sulla tridimensionalità, sullo studio delle prime relazioni strutturali tra oggetti distanti e dislocati, sulla proiettività (le nostre tesi di laurea sono esempi di questa ultima ossessione, quella di Nicoletta molto simile ad alcuni studi di Peter Eisenman di dieci anni dopo, era una speculazione progettuale sulle possibili deformazioni assonometriche sul cubo; la mia un ambiguo intreccio di strutture prospettiche). Conseguentemente eravamo eravamo molto polemici, quasi settari.
Francesco Cellini.
Entrambe le dichiarazioni espongono la contraddizione, che non capimmo allora [anch’io come tutti] : l’iconciliabilità della politica con l’utopia. E della tecnica .
Forse ne gli anni in cui si elabora un progetto di sé non è facile capire.
Il diverbio è il problema del tempo cioè nella diacronia nella quale emerge il conflitto tra mira al futuro prossimo e mira ad un più remoto futuro. Tempo breve e tempo lungo. L’architettura, per definizione è implicata nel tempo lungo. Anche il progetto di sè. Ma, di fronte al tempo lungo, quando i maestri persero d’autorità, forse, la sospensione dell’esercizio del mestiere parve la soluzione. Lo ha detto esemplarmente Petruccioli, Poi c’è stato il ’68, in virtù del quale si ritenne per un certo periodo, (lo ritennero in molti, ed è stato un marker generazionale) che in alcuni frangenti storici, gli strumenti tradizionali della disciplina, (la matita, il disegno, etc.) debbano essere sostituiti dalla politica e dalle sue forme espressive specifiche.
Questo avvenne. Non tanto e solo a Roma. Ma a Milano. In modo radicale con intenti rivoluzionari. Non privi di quel velleitarismo che ne decretò la sconfitta. E pose termine a quel limbo degli anni ’60 [seconda metà], quando vi fu un progetto, quello del’ingegnere_architetto impersonato dall’alleanza tra De Carli e Finzi all’ epoca dei grattacieli: Velasca e Pirelli, per i quali, la professione esigeva la intelligenza della forma dei Nervi e Danusso come anima statica. Fu proprio De Carli, a cercare nel gesto politico, forse, il mezzo di resistere all’estremismo. Lo pagò caro. E decretò la fine del suo esperimento.
Lui che era stato il giovane brillante “scoperto” da Ponti alla fine degli anno trenta, anima poetica di “Stile” negli anni ’40 e autore promosso da “Stile” di Luigi Moretti negli anni ’50 e direttore dell’istituto di Architettura degli interni negli ani ’60, l’anima dell’esperimento di cui dissi.
Non dico altro.
Devo tornare agli anni ‘40/’50. Gli anni sessanta a Milano sono esito di quegli anni, tra guerra e dopoguerra. Non posso recepire la critica politica. Soprattutto se si estende alla disciplina ed al dibattito intorno ad essa. La vera critica radicale fu al costume di allora, nei termini di Barbera “l’arretramento lassista e la pietas maternale, adattabile e furbesca delle società, delle istituzioni e del governo” che portò ad uno scontro radicale due generazioni, inconciliate normalmente, ma nell’ardore del sessantotto l’una bruciava, l’ltra di riflesso riboliva di rancore e di terrore. In tale temperie si insinuò la “damnatio memoriae” di Casabella testimoniata da Tentori . Forse, allora, non fu intenzionalmente tale. Forse fu soprattutto la ritorsione di chi volle sottrarsi ad una egemonia confermata nel tempo valendosi del ritorno di Gropius ai Ciam. Forse fu il tentativo di aderire fino in fondo alla deriva sociologica e “politica” che sotterrò i CIAM considerato erede dell’international style. Il dibatito però non fu più dialogo di pensieri in critica reciproca, ma “battaglia” all’ultimo sangue. Per cui chi prevalse pretese lo spoglio del nemico e la damnatio memoriae. S’ignorano intenzionalmente Stile e Spazio. Si è affermata la cultura ufficiale del politically correct. Perciò ho fatto un passo indietro. Per riattivarne oggi la memoria. Ho guardato la bibliografia di de Carli. Non una parola sulla sua attività nella prima e sulla sua presenza sulla seconda.
Cito da Rassegna, l’interesse di Purini a Casabella di Rogers:
Francesco Tentori ci potrà raccontare a questo proposito come la rivista “Casabella”, diretta in quegli anni da Ernesto Rogers, interpretò l’esigenza di istruire in maniera più ampia e anche tendenziosa i problemi in gran parte nuovi che presentavano – dice Purini nel convegno del ‘2002 e tentori riponde – Credo che la rivista “Casabella” in cui ho lavorato sia stata una sorta di compromesso tra il direttore, Ernesto Nathan Rogers, e il gruppo di giovani di cui facevo parte, che era stato chiamato a rincalzo dei primi due redattori, Vittorio Gregotti e Gae Aulenti. Un compromesso che comportava da un lato una specie di understatement, o di dimenticanza, da parte nostra, di alcune questioni – soprattutto riguardo gli architetti italiani contemporanei – che Rogers desiderava non venissero trattate dalla rivista. E questo non riguardava solo Luigi Moretti, perchè era fascista, e Adalberto Libera, per la stessa ragione, ma anche Gio Ponti – per esempio – oppure Muzio e altri. Il compromesso comportava, d’altro canto, che noi disponessimo di una certa “libertà” politica, per parlare di certi temi urbanistici e, per vederli da un punto di vista, in sostanza, marxista.
I quali temi sono mantenuti al di fuori dal dibattito del che si animò atorno al PIM che vide contrapporsi alla visione sociopolitica di De Carlo, la posizione tecnico_ geografica di Bacigalupo non la voglio schiacciare, com’è oggi sulla contrapposizione destra_sinista perché non riconosco in bacigalupo un esponente della destra, come se ogni scelta basata su fondamenti tecnicogeografici ed economici fosse di destra e quelli sociopolitici, a priori di sinistra.
Ricordo in proposito un intervento esemplare di Marco Bacigalupo in un dibattito del ’65. A proposito della critica fatta da De Carlo, all’intervento di Mazzocchi che Bacigalupo considerava, giustamente , critica a lui stesso come esponente di “quelli dell’utopia” diceva: Mazzocchi non è qui con noi ma penso che possiamo dargli credito dicendo che da una parte sapesse benissimo che la base (o se si vuole l’obbiettivo) del piano processo è o dovrebbe essere una certa utopia, e che dall’altra parte non potesse ignorare il fatto che essendo di per sé la pianificazione (non il piano) un processo, anche la proposta di sviluppo lineare, cioè la proposta di “quelli dell’utopia” doveva comunque concentrarsi… “nel processo” della sua realizzazione. Questo mi pare proprio evidente.
Negli anni 2000 l’opposizione tra utopia e processo, era già sparita dalla discussione. Mentre il processo, si era già mutato in un protocollo di norme giuridiche, poi evoluto in un testo di strategie di politiche urbanistiche entro la relativa “narrazione” che ne è la premessa. Forse tutto ciò viene dalla Francia e dalla università francesi nelle quali non ve n’è alcuna d’architettura. Né fu tale l’école des beaux arts, la scuola internazionale e americana. Che non smentì l’international style.
In ogni caso il disegno fu emarginato dalla pianificazione urbanistica. E con esso, l’architettura tout court.
In Italia, nel frattempo, l’architettura del novecento, in particolare Novecento, divenne “fascista”. Dunque non se ne parlò più.
Poiché penso che sia stato un erore fatale, faccio un passo indietro. Non solo a proposito del’urbanistica, ma anche della posizione dei Rossi e Tafuri, che rimossero l’utopia della realtà in nome dell’archetipo. E consegnarono alle generazioni seguenti, la subalternità al politicaly correct della cultura internazionale.
Il passo indietro, fatto da qualche anno, mi ha portato, quando mi sono imbattuto nel documento di Purini, a guardare le posizioni milanesi e mie, da un punto di vista “altro”. Soprattutto non immediatamente integrabile. Anzi in qualche modo “eccentrico”. È questa posizione che consente di intendere meglio le scelte milanesi.In proposito riporto un aneddoto di Petreschi a proposito di una conversazione con Rikwert, alla mensa della University of Pennsilvania, un elegante interno riservato ai professori. Il professore “americano” criticava l’ostracismo dei colleghi italiani, verso l’opera di certi architetti del periodo fascista, mentre “negli stati uniti avveniva il contrario e l’avanguardia si interessava proprio a quelle opere e a quegli architetti”. Indicava, così il conformismo italiano; la perdita della libertà di pensiero.
In proposito Paolo Melis rincarava:
Le Corbusier nella prima metà degli anni ’60 nonostante fosse all’apice della fama, e producesse ancora progetti davvero esemplari, non era nelle corde di quella cultura architettonica impiantata soprattutto a Roma … Pesava, evidentemente ancora, nel giudizio di alcuni l’essersi rivolto, a suo tempo, all’autorità di Mussolini.
In fondo pure il razionalista Le Corbusier era vittima, in quegli anni di guerra fredda architettonica, dell’equazione razionale=fascista, come aveva ricordato Libera nel suo appassionato scritto del 1960 c. “La mia esperienza di architetto”. In Italia, poi i suoi due massimi detrattori, erano due romani: Zevi , romano errante, che gli contrapponeva Wright, Giulio Carlo Argan, romano acquisito, che in “Walter Gropius e la Bauhaus”, gli aveva opposto Gropius.
Testimoniava la perdita dell’obbiettività nel giudizio.
D’altra parte, per questo rivendico la necessità del passo indietro che ho fatto. Consente di affrontare questa omissione del tutto fuorviante per chi affrontò la modernità come controscuola.
Consentì loro, quando scelsero Luis Kahn di evitare la discussione sul metodo di progettazione contro l’international style . L’ho già detto più sopra. Non capì, di le Corbusier l’inedita sintesi di materia ed armonia dei numeri. Cioè di pietra artificiale (cemento armato=béton brut) che Luis Kahn impiegò spietatamente nelle sue opere monumentali.
Non si può dimenticare l’incontro alla triennale del ‘51 tra Wittkower e Le Corbusier. Ed il rispetto che lo storico del Warburg Institute tributò in seguito all’artista svizzero. Senza nulla abiurare della sua posizione di cultore della storia.
Sono tornato agli anni ‘40/’50, cruciali per la presenza dell’architettura italiana nel mondo, gli anni di Spazio di L. Moretti che preparano l’ affermazione internazionale successiva. È del ’63 la tour de la Bourse progettata da lui con Pierluigi nervi a Montréal in Canada. Di Moretti, ripeto, l’esploratore sapiente dell’espressività dei materiali. Che non può dirsi brut solo perché la lavorazione dei materiali nelle forme inventate è sapiente. Esempio non superato del made in Italy d’allora.
Se avessimo capito allora ciò che testimonia il talento che sopravvive “naturalmente” nel nostro paese, forse non saremmo nella stagnazione che lo morde . Avremmo una scuola.
Il passo indietro, è inteso a orientare alla tecnologia la perizia artigianale ed a scoprire la mano e la mente operante negli strumenti più sofisticati della tecnologia. A recuperare, malgrado loro, Rossi e Tafuri. Non a cancellarne la memoria. Ad esorcizzarne, però, gli interdetti.
Mi occorre per valorizzare la presenza di Moretti oggi.
Il modo specifico di non tradire Mies nel misurarsi con il grattacielo. Nell’appartenere al suo tempo, oltre Mies, oltre le Corbusier, oltre Terragni soprattutto, nella temperie della guerra fredda in cui la materia si rivoltava contro l’uomo. E si trattò di pensarla in modo nuovo.
Entro la materia studiata a fondo e coniugata con l’armonia dei numeri, non dico il modulor, ma il parametrico. Quello dell’algoritmo matematico, non dei programmi che ne sono derivati.
Non penso di proporlo per “citarlo”. Ma per emularne la ricerca.
Del resto gli architetti italiani studiano gli autori senza sognarsi lontanamente di copiare. Concludo quindi con Petruccioli:
Io, che nel corso degli studi , ho fatto riferimento a Luis Kahn, affidandomi a lui come ad un maestro capace di indicarmi la strada coerente che collega la riflessione progettuale alla concreta costruzione dello spazio , mai ho pensato che Kahn, (sarebbe stato tra l’altro molto singolarmente contraddittorio) esercitasse su di me questo magistero per motivi di affinità ideologica o di identità di obbiettivi etico-sociali. E questo ritengo sia stato possibile in virtù dell’opportunità che avemmo, nella nostra facoltà, tra il ’63 e l’inizio del ’68, di vivere la nostra formazione almeno un po’, al di fuori dei rigidi comportamenti imposti da una totale adesione ideologica.


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