Questo studio nasce da una domanda occasionale di Franco Purini. Mi chiede di scrivere poche righe su di un libro, che mi consegna. Non lo conoscevo. Ne leggo qua e là. E mi convinco.
In realtà non posso scrivere poche righe a proposito di qualcosa che si è rivelata una impresa: coinvolgere una intera generazione di architetti coetanei a ripensare agli anni di formazione: i famosi anni ’60, dopo quarant’anni.
1.
Saprò capire qualcosa della “scuola romana” su cui già mi arrovellavo. Non capendone l’evoluzione da Novecento di Piacentini all’operante storia di Muratori; e a Roma interrotta di Portoghesi ed Argan? Già non capisco la mia scuola. In particolare la rimozione colpevole, della lezione di Ponti e di Moretti accomunati dall’amicizia e dalla comunanza di idee che si manifesta nell’opera degli anni 50/60, divenuta oggetto di culto. Non capisco, oggi, il persistere dell’interdetto di Rogers – risalente, come ricorda Tentori nel suo contributo a Rassegna – che pretese dai giovani redattori di Casabella, di rimuoverne la memoria. D’altra parte la scuola milanese, che s’intitola a Rogers, ha rimosso l’ utopia della realtà. La più geniale idea di progetto moderno, messa a punto e verificata, proprio nel cuore degli anni ’60, con l’ultima generazione dei suoi allievi. Rievocare e pensare il decennio ’60 è occasione da non perdere.
Vorrei portare l’attenzione, nell’avviare lo studio, al decennio precedente e al primo dopoguerra. Quando Roma è chiamata dall’intera comunità scientifica internazionale ad esemplificare la qualità della “scala al vero” contro le megastrutture e le loro misure, per così dire an-umane, dettate dalle linee di circolazione dei veicolari (vere e proprie protesi urbane).
L’ attenzione alla misura umana s’imponeva nella pratica dello spazio globale proprio perché esso non era più gestibile dal corpo entro i limiti delle sue risorse naturali. Essendo tuttavia il corpo il detentore esclusivo dell’esistenza. Forse questa istanza globale non è stata debitamente assimilata dalla scuola romana. Né dalla italiana.
2.
Invece, La lezione di Roma titolo della pubblicazione dell ’82 di J.M. Schwarting, – Prize fellowship at the American Academy in Rome from 1968-70 – che fu tutor dei corsi estivi per la stessa Accademia negli anni tra ’70 e ’80, riportandone in quel testo i prodotti, lo sapeva bene, nel proporre all’intera comunità scientifica degli architetti non tanto gli studi d’archeologia. Invece quell sull’opera del seicento secondo il progetto di Sisto V, documentata dalla pianta del Nolli del 1748, studi contemporanei alla Esposizione di Roma interrotta. La lezione di Roma si confrontava con la proposta di Bob Venturi che, ad essa, contrapponeva Learning from Las Vegas. Del resto la sua proposta sovversiva – e, in quella occasione provocatoria -, testimoniava di una istanza della modernità accidentale. Non ignorante, ma inadeguata. Del resto gli architetti romani presero un’altra strada. Antonino Saggio, lo ha detto bene, qualche decennio dopo in Rassegna. L’ idea di Roma, grande metafora del fare architettonico , emerge , faticosamente, tormentatamente, rimbalzando nel lavoro dall’uno all’altro, riemerge a distanza di vent’anni, come contributo di questa generazione formatasi nella nostra facoltà negli anni ’60.
Pensando, però, alla lezione metastorica di Roma svincolata dalla costruzione, cioè sulla forma simbolica dell’architettura, vedo l’interdetto che pesa proprio sulla teoria che la lezione di Roma impartisce. Penso all’appello di Argan, nel discorso inaugurale: Nessuna proposta urbanistica, nessun progetto… Ma una serie di esercizi alle parallele della memoria, che suona come una censura ai costruttori.
Certo era accompagnata da una istanza alla ricerca teorica commendevole, più che mai necessaria di fronte alla modernità che imponeva le sue istanze. Apprezzo la proposta a rovesciare la Memoria dal passato al futuro, che penso monito all’immaginazione di non sganciarsi dalla memoria. Ma temo l’idea di ribaltare l’Immaginazione dal futuro al passato. Soprattutto se non è premessa di progetto. Anzi di costruzione che verifica il progetto.
Penso, invece a chi, qualche decennio dopo, s’interrogò sul progetto moderno. Dico di Rafael Moneo. Il quale comprese nell’attitudine militante di chi progetta, l’inquietudine teorica soggiacente alla scelta strategica. Propone, penso, un tema da meditare ai sostenitori di una controscuola che si misura con L’ idea di Roma, grande metafora del fare architettonico. Congegnale per di più a chi fece della scrittura architettonica un oggetto di ricerca. Non so se Franco ne conviene. Nel citarlo, però, torno all’inizio.
3.
Senza volerlo, mettendomi nelle mani il documento degli anni ’60 a Roma, redatto quarant’anni dopo da chi ne visse le vicende, Franco mi ha dato appuntamento con loro, tramite un libro. E quasi vent’anni dopo la sua scrittura. È una sorta di appuntamento tardivo con il destino che ci venne addosso? Alla cui accidentalità si rispose solo con la risolutezza di una scelta.
Lo ha detto con esemplare semplicità Gianni Accasto. A Porta san Paolo, sono rimasto fuori , significando che non entrò a scuola per partecipare alla manifestazione che, nelle sue parole, concludeva “ cinematograficamente il dopoguerra “ con una carica di cavalleria contro i dimostranti”: a loro volta contro un governo che apriva ai fascisti. Era una scelta carica di esitazioni. E si è gravata nel tempo di disincanti e crisi, ma non è stata smentita. La scelta rese irrevocabile il giudizio. E non si torna indietro. Si può andare solo avanti.
Per questo, secondo me, si deve prendere per le corna la molteplice delegittimazione dell’architettura.
4.
Purini, al tempo di ARC, me ne segnalò le ragioni. Come allora resistetti, ancora resisto. Quantunque il suo monito, avesse ragioni forti, pensavo, non colpissero i fondamenti della “fattualità” architettonica sapiente, autonoma, comunicata in modo non verbale per costruzioni e disegni. Pensavo che l’urbanistica, l’ecologia o la filosofia non possano legittimamente sostituire, e soprattutto che la gente non può autoprodurre costruzioni urbane da abitare. Non si nasce, senza disporre di un campo da abitare. Il mondo preesiste. L‘artefatto non lo sostituisce. Lo rende intellegibile a chi lo abita. Occorre scienza e tecnica per la comunicazione architettonica, come studio e amore per la poesia. Lo ha detto Dante a proposito di Virgilio, il maestro dell’arte poetica. Studio e amore, che sboccano in scienza e tecnica mi paiono l’esercizio di quella competenza “chomskiana” d’abitare/costruire, che Françoise Choay predica. Ma che gli architetti debbono esercitare, nel produrre una insostituibile intelligenza del mondo analoga alla poesia. Ma istruita di scienza.
Non basta?
Certo.
Ma non se no può fare a meno.
Si tratta di costruire fattualmente la nozione di spazio e di tempo. È architettonica del pensiero. Lo disse a suo tempo Kant. Ma, ciò che il filosofo sublima nelle critiche della ragione, ciascuno lo persegue in un lavoro del pensiero che gli occorre per costruire la mappa mentale del campo in cui deve agire per stare al mondo. E l’architetto lo pensa per esporlo in sito ed in presenza.
Mentre il filosofo investiga per affinare il lavorio della mente nelle astrazioni estreme, per indagare i più remoti fenomeni del mondo, all’architetto tocca inventare il modo in cui il lavoro mentale si concretizzi. E sa che l’indice di una strada, si troverà solo nel confronto con altri che forse hanno trovato una direzione.
5.
Vengo all’appuntamento con il libro. Mi capitò di doverlo prendere il giorno che Franco me lo diede. E mi chiese di scrivere qualcosa. Che, perciò mi toccava studiare. E cominciai subito.
Nel leggere le prime pagine mi ha preso l’ansia perchè il tempo in cui tutto pareva possibile è dietro le spalle. E persino accettare l’impegno può rivelarsi inane.
Sono passati quasi cinquant’anni dalla tabula rasa che, per la Facoltà di Milano, fu il commissariamento. Da quell’evento, che tutto travolse di ciò che speravamo, potrà generarsi qualcosa? La controscuola che, i milanesi non seppero vedere, potrà, resa gravida di nuove istanze, sboccare in una via nuova?
Non so.
Però. Al lavoro.

Ernesto d’Alfonso


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