1. Il tema della scrittura critica è emerso in più di una occasione di recente. Franco Purini, mi aveva chiesto un  documento preparatorio da accludere con altri a due giornate sulla Critica di Architettura da tenersi a Roma presso l’accademia di San Luca e a Milano. A Roma dovevo coordinare la sessione pomeridiana del Simposio (quella poi tenuta da Achille Bonito Oliva  Vedi). Purtroppo la data fissata del 14 maggio 2014 coincideva con delle conferenze fissate da tempo in Iran. Ho dovuto mio malgrado rinunciare, ma questo esto ne ripercorre più di un tema. Come promemoria personale aggiungerei che la lettura successiva alla redazione di questo testo di Un’ora di lezione cambia la vita di Massimo Recalcati mi suggerisce una interpretazione della critica dentro il “vuoto” che deve creare la trasmissione del sapere. Il campo specifico della critica lo possiamo immaginare delimitato da una parte, a sinistra, verso l’insegnamento, una parte centrale che ha come stella polare il pubblico e una, a destra, verso il mercato e gli affari. Muoversi in questo campo dipende da ciascuno, ma è una impostazione che permette di collocare rapidamente alcuni critici attuali. Dove sta Luigi PP… facile.. Dove sta Ciorra facile, dove sta Molinari facilissimo, dove sta Purini o Saggio facile. Dove stava Zevi facile… Dove stava Tafuri (facilissimo, ma attenzione la domanda è un trabocchetto… ). L’intervento sulla scrittura è stato poi ripreso nel seminario del Marzo 2015 organizzato da Renato Partenope e un gruppo di dottorandi del Corso di Architettura Teorie e progetto.

2. In una fase della mia vita ho fatto il critico, anche se part time e in coabitazione. Infatti scrivevo (dietro compenso) la rubrica “Critica di architettura”: la rivista era “Costruire” ed ero stato invitato dal direttore Leonardo Fiori a collaborare con tre cartelle. Condividevo l’incarico con Franco Purini, Pippo Ciorra e altri che scrivevano però più di rado (2). Non mi ero mai considerato sino ad allora un critico, ma un architetto, poi uno studioso e alla fine un docente. Ma ero diventato co-titolare di una rubrica e non potevo nascondermi e non lo posso fare neanche ora e devo affrontare la domanda su ragioni e destini della critica di architettura (3).

Dopo la morte di Bruno Zevi ero stato nominato dall’editore Testo&immagine, responsabile di una serie di libri che si chiamava “Gli Architetti”. Ne curai una trentina: volevo libri attenti ai ferri del mestiere degli architetti ( http://www.arc1.uniroma1.it/saggio/Architetti/). Ad una scrittura letteraria centrata sul giudizio estetico, volevo sostituire una scrittura precisa, analitica, attenta ad una “sceneggiatura delle scelte concrete”. Era questa una espressione di Benevolo che Francesco Tentori aveva inserita nella prefazione al mio libro Giuseppe Terragni Vita e opere (http://www.arc1.uniroma1.it/saggio/laterza.htm) definendolo “uno dei migliori testi sull’architettura contemporanea italiana”, immagino anche per questa caratteristica.

Per scrivere i miei contributi nella rubrica di Critica di architettura di “Costruire” creai così una struttura particolare. Usavo ogni volta una parola chiave (per esempio “in-between” o “spazio-sistema” o “affioramenti” o “cheapscape”) per illustrare perché l’opera di Tschumi o di Domenig, di Hadid o Gehry oggetto della rubrica fosse pregnante di un modo di fare conoscibile e trasmissibile e allo stesso tempo perché quella parola chiave condensasse una visione del mondo culturale, estetica se non politica che si incarnava in una architettura ed in un fare specifico.

Era un approccio, come dicevamo, molto sui generis almeno per come era normalmente intesa la critica di architettura.

Negli stessi anni feci un intervento a Reggio Calabria per ricordare Zevi (http://www.arc1.uniroma1.it/saggio/filmati/reggiozevi/reg.html) poco dopo la scomparsa con il titolo “La storia è critica e la critica storia”. Zevi aveva pubblicato per quaranta anni e più una pagina su “L’Espresso” che incarnava quello che era comunemente intesa quale “critica di architettura”. Zevi favoriva una decisa tendenza e contemporaneamente si schierava “contro”. Apparteneva a quella generazione dell’ “anti”, formatasi nell’immediato dopoguerra che si riconosceva “contro” il fascismo, la barbarie, l’olocausto. Per Zevi, se l’architettura aveva un sentore accademico, simmetrico, classicheggiante, si doveva sempre attaccare perché le “scelte del linguaggio” e quelle etico-politiche erano per lui collegate.

In questo contesto la critica era un anello di congiunzione con l’idea di centralismo democratico e ne diventava una sorta di braccio operativo. Esisteva un vertice che dettava la linea (nel fronte funzionalista la figura di Le Corbusier e la struttura dei Ciam, in quello organico la figura di Wright e la scuola di Taliesin) e una serie di quadri di vertice diffondevano gli aspetti fondanti della linea culturale e operativa. Il compito era dato ai critici militanti, (che a volte erano anche dei grandi narratori di vicende del passato da Nikolaus Pevsner a Sigfried Giedion a Leonardo Benevolo allo stesso Zevi). “Storia” in questo contesto era (questo il titolo della conferenza appunto) era l’altra faccia della critica.

Manfredo Tafuri userebbe parole più piene, ma non è un caso che al suo scrivere sul crollo delle ideologie corrisponda il suo rifiuto tassativo di definirsi un critico e il calarsi in un amore per la storia che (almeno nelle premesse) voleva essere tecnico filologico per una ricerca “della” cosa in sé.

Oggi Il centralismo democratico è scomparso, od ha cambiato solo forma? Credo che a questa domanda ciascuno possa rispondere da sé. Voglio credere che sia scomparso e con esso la necessità di una linea della critica, di una critica come diffusione di un sistema di valori e di ideologie precostituite cui aderire o meno. Rimane in architettura oggi in Italia una critica di questo tipo che secondo me è marginale e un poco superficiale. Quella che, riprendendo alcuni aspetti della critica d’arte, scrive ora di questo ora di quello in una ottica di servizio informativo, quando va bene, ma spesso non riuscendo a soffocare l’odore del retro bottega.

3. Credo e pratico in definitiva da una parte una “scrittura di architettura” e dall’altra una “critica del progetto”, che sono due cose diverse. La critica del progetto ha una finalità concreta, per far vedere una strada che noi pensiamo migliore, più ricca, più fertile, più densa di significati. Nella critica del progetto di architettura entriamo in campo noi stessi per quello che siamo e per quello che non siamo riusciti ad essere e vorremmo essere. Si esplica in primis con gli studenti e a volte con i colleghi più giovani quando ce la chiedono. In ambito internazionale si esplica nelle Jury che non a caso sono considerate il momento più alto della riflessione sull’architettura. Ne ho fatte con Zaha Hadid, con Ben Van Berkel con Peter Eisenman. La jury è un momento alto di confronto delle idee. Questo tipo di critica sul progetto e nel progetto, ormai avviene nel mio caso raramente su carta stampata. L’ho fatta in una decina di numeri del supplemento “On&Off” (Originale On&Off on line e a cartaceo da qui,  nuova edizione esclusivamente on line da qui) che curavo con il gruppo “Nitro” dentro “L’architetto Italiano”. Terminata quella esperienza la pratico, credere o no, sul mio Blog e sul mio Facebook. Poi credo, come dicevo, nella scrittura di architettura. Smontate le ideologie, senza una linea o una teoria da diffondere, rimangono però le crisi davanti a noi e l’idea, per me centrale, che queste crisi le dobbiamo cercare di affrontare e forse raccontare attraverso la storia di quest’ultimo secolo con l’occhio alle crisi che gli architetti hanno cercato di affrontare con lo sguardo dritto al futuro piuttosto che piegato al passato. (Architettura e Modernità Dal Bauhaus a la Rivoluzione informatica, Carocci 2010 http://saggioarchitettura.blogspot.it e gli articoli su L’Architetto)

Le responsabilità nel mondo di oggi devono essere sempre più legate ai singoli e non ai sistemi di opinione e ai credi ideologici. E in questa responsabilità dell’individuo ci deve essere, io credo, anche il bisogno di cercare sempre la critica. Cercarla negli altri verso di noi e offrirla come un bene agli altri. Vogliamo instillare l’idea, insomma che più che una critica esista una funzione critica che ciascuno può e deve imparare a coltivare.

Antonino Saggio

Di seguito gli articoli della rubrica “Critica di architettura”:

 

Oltre i Confini. Informatica e progettazione , Costruire, n. 235, Dicembre 2002 (p. 62).

Due Opere Americane, Architetture antizoning , Costruire, n. 227, Aprile 2002 (p. 86).

Progetto e informatica. Virtuale ma Concreto, Costruire, n. 219, Settembre 2001 (p. 102).

Task force per L’architettura, Costruire, n. 215, Aprile 2001 (p. 32).

NO LIMITS AL PROGETTO, Costruire, n. 210, Novembre 2000 (p. 30).

Palinsesto Urbano, Costruire, n. 202, Marzo 2000 (p. 36).

Un intellettuale contro. Ricordo di Bruno Zevi, Costruire, n. 201, Febbraio 2000 (p. 21).

Frontiere. Il coraggio di Aprirsi, Costruire, n. 200, Gennaio 2000 (p. 95-98).

I contenuti dello Slogan, Costruire, n. 198, Novembre 1999 (p. 32-33).

La Spazio Come Sistema, Costruire, n. 190, Marzo 1999 (p. 28)

Alcuni di questi pezzi sono oggi in rete rieditati da “Arch.it” http://architettura.it/coffeebreak/20001214/

 

Le tesi di Antonino Saggio dagli articoli su Costruire (1999-2002) e L’Architetto (2014).
Uno studio di Federico Marani.

 

Attraverso una serie di articoli pubblicati sulla rivista Costruire dal 1999 al 2002 Saggio da prova delle sue modalità di scrittura dell’architettura e di critica al progetto: dichiara esplicitamente di utilizzare delle parole chiave, tendenzialmente una per articolo, tra cui ne seleziona alcune, più rilevanti, che riprende da un intervento all’altro.

Si potrebbe iniziare da cheapscape. Nel suo articolo”Spazio come Sistema” vengono messe a confronto due opere utilizzate per esprimere due idee di spazio che traghettano il senso che oggi si conferisce, secondo l’autore, alla parola spazio; dalla casa di famiglia che Frank O. Gehry costruisce nel 1978 in California alla Steinhaus di Günther Domenig. Ciò che Saggio definisce cheapscape è quel paesaggio dove si inserisce la casa di Gehry, pensata in modo da apparire come composta da materiali di scarto e recupero, “con fare collagista”. Quello che invece ci insegna la Steinhaus è una nuova relazione dei termini interno-esterno: questo edificio, volutamente non finito, con una pianta che rompe ogni barriera dentro-fuori definisce un nuovo tipo di spazio inteso come “rete continua interno-esterno” che tende direttamente verso la natura, visivamente e metaforicamente. Cambia quindi “l’organo motore” dell’architettura che si avvicina di più all’idea di paesaggio: “fatto da compresenze, da socialità interagenti, da logiche concertate tra interno-esterno”.

ghery house

 

Gehry House, Frank 0. Gehry

Ecco che Antonino Saggio ha qui posto l’attenzione verso la nascita di una nuova idea di spazio che si basa sul dialogo tra “paesaggio post-industriale delle periferie urbanizzate” e “la natura”.

L’autore propende dunque verso un’analisi storica che vede un superamento dello spazio dell’epoca industriale e la nascita di nuovi tipi di spazi frutto dello svilupparsi della società dell’elettronica e dell’informazione. Ecco qui definito un ricco bacino da cui Saggio attingerà dalla stesura di questa rubrica fino ai suoi scritti più recenti.

Günter Domenig steinhaus

Steinhasu, Günter Domenig,

Nell’analisi di questi spazi Saggio riconosce quale predominante lo spazio interstiziale, in-between, e lo definisce come “vero e proprio strumento di lavoro per gli architetti”. Nell’articolo “I Contenuti dello Slogan” usa queste parole riferendosi al progetto di Tschumi per il centro multimediale a Le Fresnoy, dove l’architetto, mantenendo gli edifici industriali abbandonati, costruisce una nuova superficie coprente e riempe lo spazioche si crea tra i due livelli di coperture. Siamo di fronte, secondo Saggio, a un nuovo e interessante strumento di lavoro che viene comparato con un altro “dispositivo progettuale” usato sempre dall’architetto francese nel Parque de La Villette: il layering, “ cioè il dividere un progetto in più strati – edifici, percorsi, verde, illuminazione – ciascuno concepito autonomamente e rimontato insieme nel progetto con tecniche di discontinuità cinematografica”.

le fresnoy tschumi

 

Le Fresnoy, Bernard Tschumi

Abbiamo dunque introdotto alcuni importanti elementi: edifici abbandonati e meccanismi compositivi frutto del nostro tempo.

Gli edifici abbandonati, vale a dire le brown areas – aree abbandonate – vengono definiti quali il lascito del passaggio dalla società produttiva a quella dell’informazione, nonché le migliori occasioni per rilanciare il progetto e in generale l’architettura, tanto nel mondo quanto in Italia, dove Saggio registra un momento di particolare crisi negli anni in cui scrive l’articolo “Il Coraggio di Aprirsi”. In questi paesaggi poveri (cheapscapes) risiede la nuova ricchezza dell’architettura. Proprio per guidare la società intellettuale italiana a intervenire in questi contesti fa appello alle esperienze di numerosi esponenti dell’arte contemporanea come Burri, Rotella, Pollock, che fanno riferimento alle esperienze di Pop-art, Arte Povera e al Ready-made. Queste grandi aree da riqualificare suggeriscono all’autore la questione già citata della natura e del nuovo rapporto che la città metropolitana dovrebbe stabilire con essa: introduce dunque termini come “risarcimento urbano” o espressioni quali “iniezioni di verde” che svilupperà in altri suoi scritti e che troviamo qui presentati a un livello di bozza.

È in questo ultimo articolo che vengono fatti riferimenti diretti a un cambio di tendenza che avviene dentro l’architettura e dentro la città per seguire l’avanzamento dell’era digitale. Saggio lo spiegherà in articoli successivi, “Architetture Antizoning” e “Virtuale ma Concreto”. Se si parte dal concetto di antizoning, cioè una città che si basa sulla mixité funzionale, si può capire quale deve essere la tendenza per la pianificazione delle città. Dato che si è cambiato dal sistema industriale che usava il concetto di Catena al sistema informatico che usa quello di Rete, la città deve iniziare a funzionare per frammenti e in simultaneità, non in sequenzialità. Saggio riesce a creare questa potente metafora: rete vs catena, simultaneità vs sequenzialità; e la applica tanto alla città quanto allo spazio in architettura. Gli edifici si costruiscono sempre di più secondo la logica della personalizzazione anziché quella della standardizzazione. La versatilità che troviamo oggi in rete, la individualità centrale nella società dell’informazione crea un scontro tra soggetto e oggetto. Tutto ciò non può non avere una ricaduta nella produzione architettonica dei nostri giorni. Senza dunque compiere alcuna critica morale sull’avanzare del tempo, Saggio registra le ricadute in campo spaziale sottolineando la richiesta sempre più insistente di spazi multifunzionali e interattivi.

Saggio dunque procede e contrappone i nuovi temi di cui si sta arricchendo l’architettura con quelli che l’avevano caratterizzata fino a poco prima: cita in particolare Louis Kahn in quanto ritiene che sia avvenuto un profondo sganciamento dalla monumentalità, richiamata dalla materialità costruttiva del maestro americano, che porta verso una maggior personalizzazione dell’architettura , la cui strada “come in un ipertesto è ogni volta da tracciare”. Fondamentale pare inoltre l’apertura verso le contemporanee correnti di pensiero dimostrata in affermazioni quali “ Apparentemente è il contenitore che stravince sul contenuto, nella realtà sono le “informazioni” che entrambi veicolano il nuovo valore”.

Stazione Termini, Roma

La monumentalità non è un concetto che Saggio rifugge e che invece ritorna nell’articolo “Palinsesto Urbano”. Qui viene riassunto il pensiero dell’autore sull’intervento a un edificio identificato a sua volta come riassuntivo, la monumentale stazione Termini di Roma che viene infatti definita “oggi un grande foro”. Saggio ricorda la portata del ruolo rigeneratore a scala urbana che un intervento come questo possiede. Questa strategia viene vista come positiva in questo caso, ma viene invece criticata per il progetto di Richard Meier sull Museo dell’Ara Pacis dove si auspicava un procedimento opposto e Saggio si schiera contro la pubblica amministrazione romana: riqualificare prima l’area attraverso un piano urbanistico e successivamente inserire un progetto di richiamo internazionale per valorizzare ulteriormente la zona, era questa la strategia da adottare. Questa posizione viene chiarita in “No Limits al Progetto” dove Saggio si esprime a favore dell’intervento sul costruito e sui centri storici andando contro “chi sostiene ” l’esistenza di una bellezza da congelare, imbalsamare, musealizzare”. L’autore intende inoltre “ ricordare che la complessa pratica intellettuale e tecnica che chiamiamo progetto di architettura ha invece il compito di formare un quadro coerente e significante della realtà” e lo riafferma dicendo “Al progetto di architettura si è così spesso sostituita nel centro una prassi basata su rimedi provvisori (…) ciascuno autonomo dagli altri e governato solo dalle sue settoriali esigenze”.

Proprio per questo apprezza l’intervento alla stazione Termini, in quanto lo interpreta come un palinsesto: “quelle pergamene medievali, cioè, in cui ogni nuova scrittura si sovrappone senza cancellare completamente i testi precedenti”.

Il tema del restauro viene affrontato e l’autore esprime chiaramente la sua posizione con frasi contundenti come “il solito appiattente restauro conservativo”, e ancora “è’ un caso raro dove un architetto sensibile, giocando con la propensione della nostra cultura alla conservazione totale, riesce ad ottenere un esito finale sorprendentemente contemporaneo”.

Si tratta, quest’ultima, di una frase tratta da “Una Task Force per l’Architettura” in cui commenta l’intervento alla Terme di Diocleziano condotto da Giovanni Bulian. In questo passo “ma è soprattutto il contrasto di grana, di scala, di materiale, di riflessione alla luce che è suggestivo” Saggio, nonostante si schieri contro gli interventi più conservativi, dimostra sensibilità e apprezzamento per un attento intervento sull’antico del quale coglie il ruolo nella città e il ruolo nella memoria storica, nonché soffrire per le mutilazioni le incompletezze sofferti dai monumenti.

Nel sopracitato articolo pone proprio questa questione saliente e cioè gli effetti secondi che la macchina burocratica ed amministrativa spesso hanno sugli edifici storici. Da qui la provocazione: “ A volte avremmo voglia che nelle città esistessero dei gruppi di guastatori architettonici. Dei guastatori al contrario intendiamoci. Cioè dei gruppi che rimettessero con un blitz di ragionevolezza e di buon senso le cose al loro logico posto”.

Ancora una volta si dimostra sensibilità per il resto archeologico e uno spiccato desiderio di intervenire, di andare contro ciò che danneggia sì l’architettura, ma soprattutto il mondo, la realtà in cui viviamo.

In maniera piuttosto diretta, si può leggere questo atteggiamento di Saggio alla luce di un personaggio che egli spesso cita e che nel pezzo “Un Intellettuale Contro. Ricordo di Bruno Zevi” illustra ampiamente. Dopo la morte di Bruno Zevi Saggio inizia a dirigere la sezione “Gli Architetti” nella collana Universale di Architettura fondata dallo stesso Zevi, Editore Testo&immagine. Si tratta di una figura che per Saggio rappresenta un maestro e un esempio. Ne dimostra l’attaccamento quando scrive “Al di là delle ideologie, al di là dei partiti, al di là delle fedi laiche o religiose è l’integrità e il coraggio dell’individuo la vera etica. Il motore di Zevi per più di sessanta anni di accanito lavoro è stata la costruzione di una coscienza di libertà, una conquista che si doveva compiere costantemente, giorno per giorno”. Testimonianza dell’affinità che lega i due è l’interesse per il rapporto uomonatura, veicolato dall’architettura organicista di cui Zevi fu il traghettatore in Italia, e per Spazio come centro della critica: “L’architettura è ricondotta al suo centro: la creazione dello spazio, la capacità di plasmare il vuoto.(…) Zevi che ha fatto dello spazio la categoria interpretativa fondamentale della critica architettonica”. E proprio come nel titolo del suo articolo su Zevi, anche Saggio ci tiene ad essere un intellettuale contro.

La coscienza civile, che probabilmente lo stesso Zevi trasmette a Saggio, sarà quella che porterà l’autore romano a concentrarsi su altri temi e a dedicarsi alla diffusione della sua ricerca più sul web che sulla carta stampata, attraverso blog, webzine e social network, dimostrando un continuo aggiornamento e attenzione per il nuovo, come già dimostrato in precedenza.

Più di recente, nel 2014, Saggio ha pubblicato una serie di articoli sulla rivista L’Architetto, mensile del CNAPPC. L’impronta che Saggio decide di utilizzare è probabilmente più adatta alla rivista in sé, con carattere di guida per i professionisti a livello nazionale. Saggio si concentra dunque su alcuni temi che, già tramite gli articoli su Costruire, ha dimostrato essere relazionati alla sua attività critica e che qui affronta e approfondisce con un carattere più divulgativo.

Partiamo con dire che si occupa di questioni territoriali e di cronaca corrente che lasciano da parte la critica d’architettura. Rivolge invece la sua attenzione su problematiche quali il consumo di suolo, dissesto idrogeologico, l’abbandona della rete ferroviaria e la propensione di alcune amministrazioni comunali per la rimozione di tracciati ferroviari esistenti. Quello che Saggio suggerisce è: “Lavorare sulle interconnessioni tra i fenomeni piuttosto che sulle componenti singole, per aiutare a mettere in campo strategie sistemiche che vanno dalla macro alla micro scala. (…) I tre elementi sono: il consumo di suolo, il ruolo delle infrastrutture e le aree abbandonate”. Vediamo qui gli ingredienti per una ricetta dove “L’infrastruttura ferroviaria in questa maniera diventa volano di accrescimento economico e sociale a livello intercomunale”. Ecco dichiarato dunque il fine di questa critica e di questa proposta che viene arricchita quando dice “valorizzare il recupero e anche lo sviluppo edilizio ex novo di alcuni mirati punti del tracciato preesistente”.

Il discorso di Saggio verte spesso sul concetto di infrastruttura: sembra questa una sineddoche che intende mettere a sistema il territorio attraverso un rete, un network; e allo stesso tempo una metafora di un sistema astratto prodotto dalla nuova società dell’informazione. Chiaramente un sistema vincente per Saggio. Abbiamo già accennato all’interesse che l’autore dimostra verso la tecnologia e l’informatica come chiave di volta dei nostri tempi.

Introduciamo uno spunto di riflessione che Saggio ci propone: la relazione che intercorre tra infrastruttura e sviluppo. A riguardo si esprime in maniera categorica: “E siccome non c’è sviluppo senza infrastrutture, dobbiamo creare infrastrutture di nuova generazione”. Ecco spiegato il mezzo con cui l’autore intende percorrere la strada della novità, un’infrastruttura al passo coi tempi. Ancora in maniera diretta stila i suoi 5 punti dell’infrastruttura: “Deve essere multitasking, cioè fare più cose contemporaneamente; deve essere attivamente sostenibile (cioè non solo non deve inquinare e consumare poca energia, ma soprattutto deve innestare cicli attivi di bonifica e di disinquinamento); deve fornire una mobilità di qualità; deve essere volano e vettore della informatizzazione della città e deve essere infine magicamente bella, galvanizzare anima e cuore”. Vanno sottolineate tre parole chiave: multitasking , sostenibileinformatizzazione.

Il multitasking per l’autore segna la differenza fra l’era del computer e quella della catena di montaggio: “ Ma il mondo cambia e nella Terza ondata della società delle Informazioni il concetto di multitasking ha cancellato il monotasking della civiltà industriale, la Mixitè lo Zoning”.

Ecco quindi la necessità di legare l’infrastruttura all’informatizzazione, alla Information Technology, in quanto componente fondamentale per il raggiungimento della sua multifunzionalità.

Se ci spostiamo poi alla terza parola chiave, sostenibile, troviamo l’espletamento di un nuovo tema dentro la visione di Saggio.

L’autore è cosciente della situazione climatica, senza mai accennare ai temi largamente discussi sui media, e guarda ai numerosi esempi nel mondo dove si coniugano architettura, infrastruttura, sostenibilità e verde: per inciso già di per sé questo elenco potrebbe definirsi multitasking. Gli esempi citati, High Line a New York e Green Belt ad Atlanta tra i vari casi, sono spesso progetti nati “dal basso”, su proposta dei cittadini, e sostenuti dalle amministrazioni e imprenditori locali. E quasi sempre si tratta di riuso dell’infrastruttura esistente. Saggio illustra queste dinamiche quali virtuose e portatrici di miglioramento nonché come esempio da seguire, senza perdere l’occasione per redarguire il contesto italiano.

Ripensando ai temi quali il consumo di suolo e il dissesto idrogeologico, Saggio già dichiara la sua attenzione per l’ambiente. E va ben oltre. Dopo aver costruito un sistema dialettico tra concetti quali aree abbandonate, infrastrutture di nuova generazione, mixité funzionale e sensibilità per l’ecosistema, conia alcune espressioni fondamentali: risarcimento urbano, iniezioni di verde, re-building nature. L’idea di risarcimento nasce quando dice: “L’uomo della civiltà post-industriale può rifare i conti con la natura perché se l’industria manifatturiera doveva dominare e sfruttare le risorse naturali quella delle informazioni le può valorizzare”. In questo passaggio si legge chiaramente come Saggio senta la responsabilità civile della nostra generazione nei confronti del nostro pianeta. Tema caro a Wright e al suo allievo Zevi, maestro di Saggio. L’autore orienta il suo interesse non tanto verso l’architettura organica e a differenza dei due maestri si muove verso il disegno urbano e spiega bene come attraverso questa affermazione: “Patrick Geddes (…) urbanista botanico (…) ha scritto pagine memorabili contro la griglia, perché la griglia è naturalmente quanto di meno organico si possa pensare. A tutte le scale, perché l’anello è la forma primaria della vita. Implica già al suo nascere (…) un ciclo in-put/out-put/in-put”.

Sebbene non si addentri nel livello architettonico, la sua analisi non rimane a livello territoriale ma bensì entra nella città. Riesce a vedere i vantaggi della cura dell’ecosistema urbano e delle sue ricadute sulla qualità della vita: “La presenza di questi sistemi verdi permette di collegare e valorizzare, inoltre, anche aree più piccole – in gergo isole ecologiche – e di sviluppare alberature ed essenze specifiche. Il tema del risarcimento urbano, cui si è fatto cenno, diventa così fondamentale e si muove attivamente in tutti i processi di miglioramento dell’ambiente metropolitano”. L’autore afferma come l’infrastruttura torna centrale anche in questo e conia il termine slow space e lo spiega così: “ Insomma l’idea che una infrastruttura abbia al centro anche la qualità della mobilità e dei contesti che attraversa e che questo sia volano di molte altre scelte è centrale e indispensabile. Per condensare il concetto si potrebbe allora usare il termine di Scaloppe, riferendosi non solo alla valorizzazione ambientale e dei monumenti, ma esattamente alle infrastrutture. Un po’ più slow consente di inalare lo space, lo scenario sia urbano che archeologico o naturale”.


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