«Glorificare un grande valendosi dell’esaltazione di una sua opera che fu definita divina,
determina forse per la prima volta nella breve storia dell’architettura moderna un fatto di estrema importanza.
Si tratta di ottenere il massimo di espressione col minimo di rettorica,
il massimo di commozione col minimo di aggettivazione decorativistica e simbolistica. (…)
È il collaudo che si vuol tentare della nuova architettura sul banco di prova della triade così piena
di incognite e di equivoci stabilita dalla monumentalità, dal simbolismo, dalla aulicità»

Pietro Lingeri, Giuseppe Terragni, Relazione sul Danteum [i].

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Nel 1938 Pietro Lingeri e Giuseppe Terragni sono chiamati a progettare, nella zona dei fori imperiali di Roma, il cosiddetto «Danteum», edificio commemorativo di Dante e della sua Commedia: cioè della figura e dell’opera letteraria che per diffusa credenza, ma anche per oscura verità, sembravano «rappresentare» la cultura italiana, e che il regime fascista aveva assunto come simboli retorici di auto-riconoscimento e di propaganda culturale. Come testimoniano le parole della relazione, è un progetto che Lingeri e Terragni avvertivano come prova difficile e rischiosa: erano chiamati a immaginare non solo un edificio privo di evidente destinazione e di esplicita utilità, ma a diretto confronto con il paesaggio delle rovine antiche e con i monumenti della romanità. Erano cioè chiamati ad affrontare il tema del monumento in senso generale e astratto, spogliato da connotazioni laterali, riportato a una sua essenza interna e nuda, e dunque anche ai suoi aspetti più dibattuti e controversi.

È vero che con l’antico e con i monumenti l’architettura moderna italiana aveva avuto una sua obbligata consuetudine, per il peso con cui si ponevano all’interno della città storica; ed è vero che su di essi aveva costruito, rispetto all’architettura europea, una meditazione e una sperimentazione profonde e originali. Ma si trattava per lo più di temi diluiti dentro la dialettica della città, intrecciati a problemi concreti, legati alla vita urbana e ai suoi aspetti quotidiani. Raramente si ponevano in modo così depurato, lontano, svincolato da contingenze. Tanto che si può ben dire che il Danteum ha rappresentato per Terragni un’esperienza conclusiva, non solo perché giunto al termine della sua breve vita, ma per la radicalità e l’assolutezza con cui certe questioni vi si pongono e certe propensioni vi vengono alla luce.

Il progetto infatti rinuncia ad ogni «rappresentazione» diretta o figurativa della Commedia dantesca e ad ogni evocazione di carattere plastico-narrativo, per costruirsi per vie allegoriche. Edificio chiuso in se stesso e nella solidità dei muri, separato dall’intorno, organizzato intorno a un percorso ascendente ed iniziatico che si svolge per «stazioni»: quasi «cammino spirituale» da compiere in isolamento dal mondo e nel quale la struttura del poema è richiamata per corrispondenze concettuali, geometriche, numeriche, in una progressiva catarsi luminosa che dalle oscurità dell’Inferno porta al chiarore e al diafano del Paradiso. Dunque modellato su fondamenti dottrinari espressi per numeri e figure. Basato sull’idea che l’architettura sia innanzi tutto suscitatrice di emozioni, ma sublimando le simmetrie già postulate dai romantici tra sentimenti e forme. «Esoterico» per volontà pervasiva e astrusa di fondazione matematica; per l’idea che l’architettura serbi un interiore segreto; ma anche per la supposizione che in essa sussistano strati diversi e successivi di verità, in un sottile e complicatissimo gioco di riverberazioni e di corrispondenze tra figure e concetti. Questa assenza di motivazioni pratiche apparenti (se si pensa che esse non possano essere date dalla presenza della biblioteca e della sede della Società dantesca nei sotterranei), e dunque questo ridursi dell’edificio a pura presenza e volontà di evocazione, riporta l’architettura alla essenzialità e alla durezza del suo problema: cioè al suo essere gioco astratto e sapiente di forme, al suo divenire misura dei luoghi, al suo necessario e generale confrontarsi col mondo storico delle architetture. E ciò avviene all’interno di quel paesaggio surreale e metafisico che la nuova via dell’Impero aveva creato, isolando le rovine dei monumenti romani, separandole dalla «città vivente» e assumendole come quinte di un nuovo disegno basato sui ruderi e sui materiali antichi.

Ma proprio questo sarà visto come inaccettabile. Non a caso il Danteum è stato da subito avvolto in imbarazzati silenzi o trascinato al centro di polemiche; non a caso su di esso si sono esercitati per lungo tempo giudizi solo negativi, come se si trattasse dell’esempio più scoperto di un cattivo Terragni da opporre a un altro retto e buono (mentre è una delle sue opere più dense e belle). Giulio Carlo Argan ne parla come di «un errore madornale: l’idea di far coincidere la distribuzione planimetrica di un edificio con la struttura di un poema è quasi comica: ma non più di quella di esprimere architettonicamente la vittoria, la patria, la perennità dell’impero»[ii]. Bruno Zevi ne parla come dell’«opera che sembra cedere di più all’accademia, sotto il duplice impulso dell’ubicazione sulla via dell’Impero e della trappola allegorica»[iii]. Ada Marcianò lo definisce «un paradosso urbano»[iv]. Cesare De Seta lo assume come segno di crisi ultima, di involuzione retorica e simbolica[v].  Riprendono in realtà una linea di giudizio precedente, quella di Giuseppe Pagano, che aveva condannato la Casa del Fascio accusandola di «secentismo del funzionale» e di imperdonabile formalismo[vi]: e ciò per il discostarsi progressivo in Terragni delle forme dalla loro motivazione diretta e genuina.

Questa coralità di giudizio rivela la difficoltà della tendenza a lungo egemone della critica architettonica italiana, di impronta laica e illuminista, ad intendere l’opera di un architetto in fondo religioso come Terragni; e religioso non nel senso della sua pur scoperta cattolicità, ma per il carattere fideistico del suo impegno e del suo lavoro. Fideistico nel senso di una adesione profonda al proprio ruolo e alla propria missione di architetto, sino all’immedesimazione; fideistico per l’adesione a uno svolgersi dell’architettura come mondo autonomo, portatore di una propria interna verità, non riconducibile a un ordinato computare e ad elenchi di ragioni.

Partire dal Danteum, nel trattare di Terragni, significa partire dalla fine anziché dall’inizio: ma ciò può avere senso, perché accade che la fine illumini l’inizio di una vicenda e il suo svolgersi nel tempo di luce inattesa, offrendone una chiave interpretativa. In realtà il Danteum porta allo scoperto una tendenza allegorica, un esoterismo, una presenza di strutture significanti profonde e celate, un segreto corrispondersi dell’architettura a mondi altri, che avevano percorso anche opere diverse di Terragni.

D’altronde, monumento e monumentalità sono questioni ricorrenti nella sua architettura, come nell’architettura italiana dell’epoca, oltre le polemiche e le negazioni continue. E il monumento è innanzi tutto, anche se non soltanto, quello araldico e commemorativo: opera od edificio o semplice segno chiamato a ricordare e a rappresentare un evento, con l’intento esplicito di tramandare, di ammonire, di educare. Un «tipo» che corrisponde ad esempio a quelle migliaia di «monumenti ai caduti» che si erano venuti costruendo nelle città italiane ed europee dopo la grande guerra; o ai tanti monumenti celebrativi di vicende e di figure; ma anche a quei «monumenti funerari» della tradizione cimiteriale borghese, che altro scopo non avevano se non di segnare un luogo e di perpetuare memorie di defunti, attraverso di essi ammonendo, in senso foscoliano, alle virtù civiche ed umane[vii].

Tali «monumenti araldici» Terragni ha incontrato spesso nella sua storia di architetto: dal suo primo progetto di concorso per il monumento ai caduti di Como (1926), a quello poi realizzato sulle rive del lago (1931), a quello costruito nella cittadina collinare di Erba Incino (1928-32)[viii]. Al di là della loro diversità, essi sono risolti tutti in forme depurate e primitive, nude e forti, allegoriche ed evocative, attingendo a un retaggio di forme arcaico. Non v’è volontà di rimettere in discussione, come altri facevano nella polemica contro il monumento (ad esempio Carlo Carrà)[ix], il senso generale dell’operazione, l’idea di poter costruire senza altro scopo se non quello di «rappresentare». V’era piuttosto l’idea che alla magniloquenza e al decorativismo corrente si potesse opporre una diversa ed essenziale verità, una nudità formale capace di ricondurre al significato delle forme, al loro misterioso corrispondersi con gli eventi del mondo.

Nel progetto del 1926, accanto al Duomo, il monumento ai caduti è concepito come grande arco accostato alla struttura porticata del Broletto; sopra l’arco, una loggia che si raggiunge con una scala esterna e che affaccia sulla piazza, con scolpite a bassorilievo le storie della guerra. L’arco indica un «transito» allegorico, e insieme filtra il passaggio dalla piazza del Duomo allo spazio antistante la basilica di San Giacomo, suo antico quadriportico. Ma è anche arco allusivo di antichi «trionfi». Ed è, come gli altri monumenti, in pietra scabra e nuda.

Quando anni dopo il monumento ai caduti dovrà davvero essere costruito sulle sponde del lago, Terragni lo riporterà a uno schema binario, due portali astratti e stilizzati che chiudevano al loro interno la figura di una statua. Ma anche il monumento realizzato, che la committenza volle legato a un disegno «futurista» di Sant’Elia, obbediva a uno schema binario, due elementi potenti e uguali tra cui rimaneva un varco intermedio e che collegandosi costituivano la torre capace di fronteggiare il lago.

Nel progetto di Erba Incino il monumento viene fatto coincidere con un percorso iniziatico e ascensionale che dalla città porta al sacrario posto in cima al colle, dominante il paesaggio. La linea retta del percorso prende inizio e si conclude in figure simbolicamente legate al cerchio, mentre in alto la croce tracciata sul terreno è croce religiosa ma anche geografica, indica il sacrificio ma anche i punti cardinali e le lontananze della terra. Ma l’elemento primo rimane la scala: e la scala ritorna spesso nei progetti di Terragni come elemento astratto ed evocativo, come realtà plastica fortemente incisa, come segno di fatica e ascesa.

Nella tomba di Roberto Sarfatti il monumento diviene anzi la scala, coincide con essa e in essa si risolve, segno astratto e perduto nel paesaggio; la scala qui è solo se stessa, non ha lo scopo di condurre ad altro se non al nulla; e il salire cui invita si infrange contro il segno immobile ed astratto di un cubo in pietra inciso da una scritta. Un gioco di incastri tra volumi netti e diagonalità della scala che ritorna in altri progetti: e in particolare nella tribuna per i discorsi prevista nel progetto «A» del Palazzo del Littorio.

Le altre tombe di Terragni sono state in genere cappelle di famiglia legate al costume funerario borghese: tutte risolte in volumi nobili e totemici, concise nella forma, divise tra un volto esterno araldico e un interno criptico ed oscuro. Alcune (come la Pirovano e la Stecchini nel cimitero di Como, o la Ortelli nel cimitero di Cernobbio) legate all’uso di elementi classici, dentro un depurato Novecento. La Mambretti, forse la più bella (non realizzata e pensata per il cimitero di Fino Mornasco) risolta in chiave geometrica e muraria, fatta di pareti e solidi netti, scatola essenziale ma anche giocata su aggetti e sfalsamenti di piani.

È chiaro che queste osservazioni non esauriscono il problema del monumento in Terragni: e che qui si sono considerate solo quelle occasioni, ricorrenti ma particolari, in cui l’architettura tende a ridursi innanzi tutto a retorica e a rappresentazione. Al di là di esse, rimane la più generale aspirazione dei grandi edifici o degli edifici pubblici a «farsi monumenti», a porsi come riferimenti, a divenire perni urbani. Ma è problema parallelo e in parte distinto, che sconfina in quello della monumentalità, della forza rappresentativa, della perentorietà del disegno.

 


[i] Pietro Lingeri, Giuseppe Terragni, Relazione sul Danteum; prima parte, dattiloscritto. La Relazione, priva della prima e delle ultime pagine e con diversi errori e lacune, si è conservata in una «brutta copia» dattiloscritta presso l’archivio Terragni di Como ed è stata pubblicata in tale forma nel libro di Thomas Schumacher, Il Danteum di Terragni. 1938, Officina Edizioni, Roma, 1980, pp. 135-144. Nel 1986 Giorgio Ciucci e Silvio Pasquarelli hanno pubblicato la prima parte, la cosiddetta «Ragione teorica», ritrovata in un album conservato presso l’Archivio Capitolino di Roma, in Un documento inedito. La ragione teorica del Danteum, in «Casabella», n. 522, marzo 1986, pp. 40-41. La parte di relazione pubblicata da Schumacher è tradotta in spagnolo in Giuseppe Terragni, Manifiestos, memorias, borradores y polémica, prólogo de José Quetglas, Murcia, 1982, pp. 116-132.

Il Danteum venne promosso e commissionato a Lingeri e Terragni nel 1938 da Rino Valdameri, presidente della Società Dantesca italiana, e dal senatore Alessandro Poss, che ottennero l’approvazione di Mussolini. L’edificio doveva sorgere lungo la nuova e grandiosa «via dei Fori Imperiali» appena realizzata dal regime (1932), presso il Colosseo e nell’area antistante la Basilica di Massenzio sulla quale nel 1934 si era tenuto il concorso di primo grado per il Palazzo del Littorio, nuova sede del partito fascista. L’area era rimasta disponibile perché il secondo grado del concorso (1938) prevedeva per il Palazzo una diversa localizzazione. Il coinvolgimento dell’Italia nella guerra impedì che il progetto si realizzasse, ma sino al 1941 Lingeri e Terragni continuarono a lavorarci e a sperare. Si veda  G.M. (Gabriele Milelli), 1938-1940. Progetto per il Danteum a Roma, in AA.VV., Giuseppe Terragni. Opera completa, a cura di Giorgio Ciucci, Electa, Milano, 1996, pp. 565-575.

[ii] Giulio Carlo Argan, Relazione, in «L’architettura. Cronache e storie», a. XV, n. 163, «Atti del Convegno ‘L’eredità di Terragni e l’architettura italiana 1943-1968’»), maggio 1969, pp. 6-7

[iii] Bruno Zevi (a cura di), Giuseppe Terragni, Zanichelli Editore, Bologna, pp. 156-161.

[iv] Ada Marciano’, Giuseppe Terragni opera completa 1925-1943, Officina edizioni, Roma, 19, pp. 216-219.

[v] Cesare De Seta, La cultura architettonica in Italia tra le due guerre, Editori Laterza, Bari 1972, p. 201.

[vi] Giuseppe Pagano, Tre anni di architettura in Italia, in «Casabella», n. 110, febbraio 1937, pp. 2-5; ripubblic. in G. Pagano, Architettura e città durante il fascismo, a cura di Cesare de Seta, Laterza, Bari, 1976, pp. 256-266.

[vii] Ugo Foscolo (1778-1827) è un grande poeta romantico della letteratura italiana; nel componimento poetico I sepolcri aveva esaltato la loro capacità di rammemorare le figure dei grandi e attraverso di essi le virtù civili: così che il culto dei morti era insieme uno dei modi principali per trovare una strada di riscatto.

[viii] Pietro Lingeri, Giuseppe Terragni, progetto di concorso di primo e secondo grado per un Monumento ai caduti in piazza del Duomo a Como, accanto al Broletto, 1925-26 (il Broletto è un tipo lombardo di Palazzo municipale, in genere sollevato dal suolo, così da creare una piazza porticata al piano inferiore e una grande sala a quello superiore).

Giuseppe Terragni, monumento ai Caduti a Como nella zona dei Giardini pubblici, 1930-33, realizzato a partire da un disegno di Antonio Sant’Elia e in collaborazione con il fratello ing. Attilio Terragni.

Giuseppe Terragni, Monumento ai Caduti in Guerra di Erba Incino, 1926-32.

[ix] Carlo Carra’, Benedetto Croce e la monumentomania italiana, in «Valori plastici», II, 1920, n. 7-8; Carlo Carra’, Ancora sulla monumentomania italiana, in «Valori plastici», III, 1921, n. 3. Carrà, che pure si occupa prevalentemente di monumenti scultorei, esprime spesso sul monumento una posizione più polemica e radicale: «Quando ci si accorgerà da noi che la Musa della scultura celebrativa è morta, e che per ora non mostra di voler risuscitare?» (dal secondo articolo cit.).

 

 

Per la scuola: dialogando con Purini e Vitale. Ernesto d’Alfonso


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