Innanzitutto voglio ringraziare l’Accademia di Brera.

É un grande onore essere qui.

Parte di questo onore deriva dalla mia volontà di condividere con voi qualche mio pensiero personale.

Molti studiosi hanno rilevato l’impossibilità di un linguaggio stabile dopo l’olocausto e che un linguaggio poetico come il tedesco non avrebbe mai più potuto essere lo stesso. Ciò è soprattutto vero per l’architettura, il cui linguaggio ha sempre avuto problemi nel rappresentare l’espressione di emozioni profonde o sentimenti. Questo è particolarmente vero in caso di un memoriale e ancor più specificatamente per un memoriale dedicato agli ebrei assassinati d’Europa. Più generalmente, il problema del linguaggio architettonico ha a che fare con la rappresentazione di qualsiasi cosa in architettura, specialmente se ci si cimenta in qualcosa che ha chiaramente come primo obiettivo una narrazione emozionale.

Per capire questo problema, è necessario rifarsi al dibattito avvenuto nel XVIII secolo tra due filosofi tedeschi, Gottfried Lessing e Johann Winckelmann, riguardante la famosa scultura greca del secondo secolo, il Laocoonte. Il Laocoonte è una scultura di tre uomini – un padre e i suoi due figli – nell’atto di essere strangolati da grandi serpenti marini, attorcigliati attorno ad essi come pitoni giganti.

Winckelmann sosteneva che nella poesia tragica e nel teatro i greci erano in grado di esprimere il confronto con l’agonia e la morte, ma poiché erano un popolo eroico e di natura sublime, non erano in grado di affrontare l’orrore di ritrarre una tale tragedia in una forma fisica quale la scultura. Il viso del Laocoonte, sebbene in punto di morte, non è infatti contorto negli spasmi. Per Winckelmann la stoica tranquillità del viso rappresenta piuttosto una sorta di orrore trascendentale che è astratto dalla reale agonia della figura. Di conseguenza per Winckelmann questa scultura, se avesse rappresentato gli spasmi mortali del Laooconte, non avrebbe potuto esprimere alcuna nobile semplicità, come invece richiesto dagli ideali spirituali greci. Questo, egli sosteneva, è oltre lo scopo di una forma scultorea.

Lessing risponde a Winckelmann in un famoso saggio del 1766, “Il Laocoonte”. Lessing conviene che sebbene la scultura del Laocoonte raffiguri un uomo allo stremo, in condizioni di estrema sofferenza, il dolore è espresso senza alcun segno di passione né in viso né nella postura.  Lessing riporta che Winckelmann attribuiva al Laocoonte sofferente, e con lui i nostri animi, la capacità di sopportazione degna del grande uomo, tipica dell’uomo greco. Lessing critica l’interpretazione di Winckelmann sostenendo che, secondo i costumi degli antichi Greci, il pianto dovuto al dolore fisico era compatibile con la nobiltà d’animo. Dunque il desiderio di esprimere tale nobiltà non può aver impedito all’artista di rappresentare tale pianto nella scultura. Il punto sollevato da Lessing è cruciale. Egli dice che ciò che può essere rappresentato in letteratura, poesia e perfino in musica è differente da ciò che può essere rappresentato in una forma dotata di figura – cioè in un oggetto, nella forma e negli spazi della pittura, scultura, e soprattutto dell’architettura. Lessing sostiene che la ragione per cui il Laocoonte e i suoi figli non esprimono agonia nella sua piena espressione è perché la forma fisica della bocca umana aperta in un pianto violento diventa una caricatura, una rappresentazione disgustosa che perde ogni qualità formale. Dunque ogni espressione di violenta agonia sopraffà la qualità formale dell’architettura. E per Lessing, è la qualità formale che dà sia il significato sia l’integrità interna alla figura.

Lessing sostenne che il principio supremo della differenza tra la scultura e la poesia è che l’emozione può essere espressa in uno scritto letterario – cioè in letteratura o poesia – perché il lettore non è direttamente di fronte a quelle emozioni in quel contesto.  Questa differenza definisce quello che può essere chiamato autonomia della scultura, un’autonomia che è importante in questa discussione sull’architettura e l’olocausto.  Quando qualcosa è in forma scritta, il lettore deve usare la sua immaginazione. Quando serve che il dolore fisico o emotivo, o la reazione a tale dolore, per esempio all’olocausto in un memoriale, siano espressi in forma fisica, ciò richiede una differente forma di immaginazione; di qui il problema di una tale rappresentazione per l’architettura.

Questo problema certamente attiene alla possibilità di esprimere l’emozione, soprattutto nello specifico caso di doverla esprimere nell’architettura di un memoriale dell’olocausto.

Non c’è dubbio che l’olocausto e la sua cultura di rappresentazione siano stati considerati un problema singolare nella storia del pensiero occidentale, almeno a cavallo della fine dello scorso secolo.  Ma un monumento è un caso molto specifico di tale rappresentazione per l’architettura. Può un monumento mai essere architettura? E, nel caso specifico dell’olocausto, può essere una rappresentazione esterna di una politica e narrazione sociale così come un esempio delle interne necessità dell’architettura, la sua essenza disciplinare?

Io sono qui oggi per sostenere che tale condizione sia possibile. Al fine di esprimere cosa io considero necessario per qualsiasi architettura, è necessario diminuire l’importanza della rappresentazione come sopra definita in favore di qualcosa che io chiamo “presentazione nel presente”.

Di conseguenza, gli aspetti del memoriale in Berlino che fanno di esso architettura sono duplici. Uno è il riconoscimento dello spostamento paradigmatico che ha mosso l’esperienza degli oggetti dalla loro natura critica, linguistica e testuale verso l’affettività.

Sia stato per caso o intenzionalmente, il nostro memoriale è meno legato alla sua possibilità di rappresentazione di un testo simbolico di quanto sia risultato piuttosto legato all’esperienza prima facie del soggetto nel presente.

Questo non è relativo all’esperienza prima facie relativa allo spazio dei campi di concentramento. I campi possono essere visti e quindi psicologicamente assimilati nell’esperienza quotidiana. Questo non è il caso del nostro memoriale, che permette di fare l’esperienza di essere soli, costretti, eventualmente persi nello spazio, se questa esperienza sia mai possibile. Questa è un’esperienza che non può essere facilmente assimilata nel quotidiano. È al di fuori delle esperienze fisiche ordinarie come nessun’altra nella vita di tutti i giorni.

Questo è ciò che fa di esso architettura: un’esperienza fisica che non fa affidamento sulla rappresentazione dell’olocausto come sua maggiore narrazione ma piuttosto va alla ricerca nel presente di che cosa l’architettura è e può essere.

Sette anni fa, all’epoca dell’inaugurazione del memoriale, il filosofo italiano Giorgio Agamben, in un articolo sul settimanale tedesco Die Zeit, ha sostenuto che ci sono due tipi di memoria: una è l’immemorabile, o ciò che non può o non ha potuto essere memorizzato; l’altra è una memoria archivistica, che può essere registrata e mantenuta. Agamben sostenne che il memoriale di Berlino fosse entrambe; il campo di pilastri l’immemorabile e le camere sotterranee l’archivistica.

In definitiva, come la grandezza di un dipinto è sempre riferita più al dipinto in sé che al suo contenuto, e la grande letteratura è innanzitutto riferita allo scrivere e solo secondariamente alla trama, così anche l’architettura che aspiri ad essere di importanza disciplinare è sempre riferita all’architettura.

È questo aspetto del memoriale dell’olocausto a Berlino che rimarrà dopo che ogni memoria sarà svanita.

*Lectio magistralis tenuta all’Accademia di Brera il giorno 27 gennaio 2012.( Per gentile concessione di Peter Eisenman.)
Traduzione di Lorenzo Degli Esposti.

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