La seconda facoltà di architettura di Milano-Bovisa è nata nel 1997 per scissione dalla vecchia facoltà di architettura del Politecnico. Si sono così costituite all’interno dell’ateneo due scuole di architettura, la prima detta di Architettura e società, la seconda, quella nuova, di Architettura civile[1]. Scopo della scissione era di creare un centro didattico e di ricerca che ridesse preminenza ai problemi dell’architettura e del progetto, riprendendo una tradizione di cultura radicata nella storia della città, ma divenuta marginale nella vecchia facoltà unitaria. Ma oggi la scuola che era stata progettata sta smarrendo la sua identità ed è non solo «sotto assedio», ma di fatto in via di estinzione. Nel dicembre 2012 è stato chiuso il Dipartimento di progettazione dell’architettura (Dpa), che ne costituiva il retroterra organizzativo e di ricerca. Nello stesso mese è stato chiuso il Dipartimento di ingegneria strutturale (Dis), anch’esso importante nell’insegnamento, lasciando paradossalmente il Politecnico privo di due dipartimenti autonomi nei campi della progettazione e delle strutture. Nel 2012 sono cessati e sono stati fusi con altri i tre dottorati che facevano capo al Dipartimento di progettazione e che per anni avevano formato le leve dei nuovi docenti e ricercatori. Il livello della ricerca e dell’insegnamento della scuola sono stati a lungo di grande qualità, in particolare nelle lauree, ma oggi sono divenuti incerti, per una crisi che ha ragioni esterne, interne e legate a un cambiamento generazionale.

La prospettiva, anche se non ancora definita per intero nei passaggi istituzionali, è quella della fusione per gradi con la scuola «altra» di Architettura e società, con il rischio di perdere un patrimonio importante. La motivazione ufficiale si basa su dati strutturali, come l’insufficienza di risorse e la scarsità di docenti. I docenti precari sono una percentuale altissima e i docenti strutturati molto pochi. A fronte di questa situazione gli studenti sono troppi. Bisogna diminuire drasticamente sia gli studenti che i docenti precari. Diminuendo gli studenti due facoltà non reggono e bisogna unificarle. Concorre la situazione assurda delle facoltà di architettura in Italia, proliferate oltre misura e con un numero abnorme di studenti. I dati sulle risorse e sui docenti sono reali, ma dietro le ragioni dichiarate si nasconde la volontà di chiudere definitivamente, da noi come in tutta Italia, con quella che è stata l’esperienza per molti versi alternativa delle scuole di architettura. La risposta ai problemi poteva e doveva essere diversa, e se non v’è stata risposta diversa è stato anche per responsabilità interne. Forse l’unificazione tra le due scuole era evitabile; se tale non era, si sarebbe potuta mantenere l’unità dei docenti della Scuola di architettura civile, costituendo un polo riconoscibile e continuando una tradizione. La crisi della nostra scuola e la sua dissoluzione è dunque intrecciata a quella del Politecnico e dell’università, ma per una parte importante è dipesa e dipende da noi.

Il primo e più grave peccato interno è stato quello del verticismo. Contro di esso non v’è stata tra i docenti vera reazione, ma la prima responsabilità è da attribuire a chi ha ricoperto cariche istituzionali, come i direttori di Dipartimento e i presidi. Dobbiamo riconoscere al preside attuale, Angelo Torricelli, lo sforzo per imbastire una trattativa e salvare la situazione, ma rimanendo consapevoli della sua debolezza e della sua inanità, visto che alle spalle non aveva la scuola, la sua elaborazione, il suo punto di vista, la sua unità nel trattare del proprio destino; visto che alle spalle non aveva il tentativo di coinvolgere di nuovo gli studenti, anche se molti lo considerano a torto un compito impossibile e fuori tempo. Il verticismo nasce da un limite di visione politica e da una valutazione sbagliata delle forze in gioco. Dimentica che il conflitto culturale e politico è la sola base possibile e la sola anima di una democrazia.

Fatto sta che in un momento grave come l’attuale non c’è nella scuola né dibattito sufficiente, né informazione, né mobilitazione. È andato perduto quel sentimento di coralità e di appartenenza che era stato in passato della vecchia facoltà, e poi in forma diversa della nuova scuola, e che ne aveva fatto delle realtà anomale e vive. Del carattere sperimentale dell’insegnamento, basato sulla tensione della ricerca, rimangono solo tracce. Le facoltà di architettura italiane e la nostra in particolare, sono state per un periodo lungo centri di opposizione politica e culturale rispetto alla deriva in cui l’università stava cadendo. Oggi quell’opposizione è spenta, sia rispetto al quadro nazionale che rispetto alla gestione centralistica e tecnocratica del Politecnico. Si è diventati nei loro confronti silenziosi e alla fine acquiescenti. Rimane solo, nelle sedi istituzionali e burocratiche, un colloquio isolato e sperduto di pochi, dei cui contenuti si viene a fatica a sapere.

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[1] Nel testo ricorreranno sia il termine Facoltà che il termine Scuola. Nell’università italiana le Facoltà non esistono più, sostituite dalle Scuole in applicazione della Legge 240 del 30 dicembre 2010, entrata in vigore il 29 gennaio 2011. La trasformazione è stata realizzata nell’anno accademico successivo 2012/2013. I corsi di studio, prima organizzati dalle Facoltà, sono oggi attivati su proposta dei Dipartimenti e coordinati dalle Scuole. La Legge ha ridefinito l’assetto istituzionale universitario e ha rappresentato l’ultimo atto della cosiddetta riforma Gelmini, riguardante l’intero sistema dell’istruzione e promossa dai governi presieduti da Silvio Berlusconi, con Maria Stella Gelmini ministro.