«Se è vero che l’università è la principale istituzione deputata a sviluppare il sapere in tutti i campi (scientifico e umanistico, teorico e pratico, contemplativo e tecnico…), stabilire chi ha le competenze per lavorarci, e quindi merita i piccoli privilegi della professione – stipendi più o meno decenti, libertà di ricerca, auto-organizzazione del lavoro, eccetera – è decisivo»[1].

Con quale logica avviene in genere tale scelta? «Nel finanziarsi per via illecita [nel nostro caso: nel procacciare posti ai propri affiliati], ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. […] Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita»[2]. Queste parole di Italo Calvino si riferiscono ad altre situazioni. Sono però una descrizione calzante di ciò che è avvenuto e avviene in gran parte dell’università italiana ma anche nella nostra scuola. Essa è sempre stata plurale e costituita da gruppi diversi. Ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; ogni gruppo, promuovendo i propri affiliati, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo. I gruppi a livello nazionale diventano partiti accademici trasversali legati alle singole discipline. A livello nazionale, la selezione e il reclutamento dei docenti sono affidati per intero al corpo accademico. Esso si organizza per partiti e per cordate, che agivano per alleanze quando le commissioni erano elettive, e che agiscono con pressioni e logiche di scambio da quando sono nominate per sorteggio.

Dentro questa logica vi sono casi estremi che hanno sempre maggiore estensione e che seguitano a ripetersi. Uno di questi è quello di figli e parenti di docenti di ruolo, talora viventi e talora pensionati o da poco scomparsi. Figli e parenti ne ereditano la professione e diventano a loro volta e in gran numero professori. È un costume che risale indietro nel tempo e che riguarda l’università in generale, ma anche e non meno la Scuola di architettura civile. Qual è la giustificazione di solito portata? Si sostiene che figli e parenti siano bravi o molto bravi, come in alcuni casi può essere. Ma quando la scelta parentale diviene sistema, vuol dire che le qualità culturali e didattiche si trasmettono per via familiare e genetica. Si tratta di un familismo amorale (o di una forma di nepotismo) per il quale il cognome porta con sé merito e vocazione: fa vincere concorsi che altrimenti sarebbero preclusi o incerti[3]. Accade in più che figli e parenti giovani abbiano lavorato o lavorino con i padri o con parenti anziani, e ciò aiuta a costruire titoli e diviene privilegio. Così il cognome si converte per i pochi in potere e per i molti in svantaggio. Ricerche condotte sull’università italiana mostrano quanto tra i docenti sia passati che attuali ricorrano gruppi ben individuati di cognomi. Mentre dovrebbe vigere il principio elementare di moralità, per il quale nessuno può insegnare nella scuola in cui stiano ancora insegnando o abbiano insegnato in un passato recente dei parenti stretti. Un principio che è fatto rispettare per legge o per altra norma in molti paesi stranieri, e che da noi è di continuo contraddetto.

La nostra scuola sceglie dunque i propri docenti, compresi i precari, per affiliazione stretta e cooptazione di gruppo, anziché con criteri di valutazione critica. Si crede in una posizione culturale, ma credendo si entra in un partito accademico. La scuola sceglie i docenti, anche precari, a seconda del suo riferirsi all’uno o all’altro partito. È stata in passato e seguita oggi ad essere fondata su criteri di appartenenza. Sulla selezione v’è contesa permanente, obbedendo a logiche di spartizione implicite o esplicite. È vero che si tratta di un metodo corrente, ma la degenerazione nella nostra scuola non è stata minore e forse più accentuata. Sarebbe importante ricostruirla in modo analitico e nel suo svolgersi nel tempo.

Ciò significa che la scuola si è riprodotta solo per vie interne e in modi squilibrati. Non si è mai avuto nelle valutazioni un punto di vista più esterno e neutrale, legato agli interessi della scuola. Non si è mai discusso in forma aperta, pubblica e trasparente delle assegnazioni dei posti, delle promozioni, dei risultati, né si è costruito un quadro unitario delle storie, dei titoli, delle carriere. Non si è mai (o quasi mai) riconosciuto il valore e la capacità di persone che non appartenevano direttamente ai gruppi, e che pure per lunghi periodi hanno insegnato nella nostra o in altre scuole. Soprattutto, non si è mai seguita una politica di chiamata di persone dall’esterno e da altre zone e città del paese. La nostra scuola ha agito in senso opposto a quella che negli anni cinquanta e sessanta era stata la politica di Giuseppe Samonà a Venezia, quando con atteggiamento aperto e inclusivo aveva chiamato allo iuav da tutt’Italia molti dei migliori architetti e intellettuali, facendone un centro culturalmente vivo e ricco di dialettiche. In questo modo, anziché rafforzare la scuola, l’abbiamo resa più fragile, equivoca e priva di identità. La scuola di Venezia, almeno nelle sue fasi felici, è stata la scuola del confronto. La nostra, si diceva, quella delle appartenenze, a seguito di comportamenti in molte occasioni settari, ingiusti e autolesionisti.

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[1] Alessandro Dal Lago, L’università italiana dà i numeri?, in «Lo straniero», a. XVI, n. 149, novembre 2012, pp. 28-31 (cit. da p. 28).

[2] Italo Calvino, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, in «la Repubblica», 15 marzo 1980. Ma negli appunti di Calvino il testo è intitolato La coscienza a posto. È stato ripubblicato in diverse occasioni. Ricompare con lo stesso titolo, La coscienza a posto (Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti), in I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione in 3 volumi diretta da Claudio Milanini, III° vol. a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto intitolato Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, collana «i Meridiani», Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1994, pp. 290-293. Poi ancora pubblicato nella rivista diretta da Goffredo Fofi, «Lo straniero», n. 72, giugno 2006. I corsivi sono nostri.

[3]. La riforma Gelmini dell’università (già richiamata alla nota 2), attuata con la Legge 240 del 30 dicembre 2010, ha introdotto all’art. 1, comma 1b, norme sui rapporti parentali nella «chiamata di professori di prima e seconda fascia» (escludendo dunque e non a caso i ricercatori). Il comma recita: «[…] In ogni caso, ai procedimenti per la chiamata, di cui al presente articolo, non possono partecipare coloro che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell’ateneo […]». Il «quarto grado» di parentela è quello tra cugini. La legge vieta che vengano «chiamati» parenti di professori nel loro stesso «dipartimento» o nella loro stessa «struttura», e infatti da allora essi trovano sistemazione in dipartimenti e strutture diversi o paralleli. Il nepotismo nell’università è così forte e radicato, da avere assunto da subito dopo la legge forme differenti.