Quella del Politecnico di Milano è nell’università italiana una condizione per certi versi particolare e privilegiata. Si diceva come abbia rapporti storici e in via di ridefinizione con il mondo produttivo. Ciò significa che usufruisce di commesse esterne che hanno redditività e che gode di finanziamenti esterni. È per questa condizione favorito anche dalle politiche di governo. Ha però al suo interno due componenti diverse e tra loro in contrasto, quella minoritaria di architettura e design, e quella maggioritaria di ingegneria nelle sue diverse specialità. È differente la loro struttura: ingegneria è divisa per campi di competenza e funzionali e per settori; architettura per tradizioni disciplinari, distinzioni ideologiche, alternative di pensiero. È diversa la loro prospettiva: ingegneria meno in crisi e con settori in crescita; architettura attraversata da una crisi insieme economica, di personale e di cultura e in via di rapido ridimensionamento.

Ingegneria si va ulteriormente specializzando e va accentuando, anche rispetto ad altri Politecnici, il suo carattere storico, che è in tendenza applicativo. Rimane chiusa in una frammentazione di saperi e in una divisione per ambiti di competenza, che l’ideologia tecnicistica ha legittimato. Architettura fatica a organizzare il proprio intreccio di esperienze e di mestieri. Conserva al suo interno l’aporia tra conoscenze e procedure di carattere tecnico, da un lato, e dall’altro la dimensione più ampia del progetto, nei suoi legami con territori e città e nei suoi caratteri d’arte.

Ad ingegneria la didattica rimane in prevalenza impostata sulla trasmissione di nozioni e di capacità che, si crede, devono essere obiettivamente apprese. Ad architettura l’insegnamento vuole basarsi su ricerche che spesso si smarriscono nei propri labirinti e prendono forme arbitrarie nei progetti. Sembra difficile la prospettiva, da un lato di aprire ingegneria a una dimensione scientifica e ai saperi umani, dall’altro di ricomporre ad architettura le tante anime diverse e conflittuali, storica, analitica, progettuale, tecnica, ecologica. Tanto meno v’è un disegno di riconfigurazione degli intrecci di competenze e ruoli tra architettura e ingegneria, con la finalità di ridisegnare le figure professionali: l’orizzonte di lungo termine è semmai quello dell’assorbimento egemonico da parte di ingegneria delle tradizioni culturali di architettura.

Ma siamo insieme di fronte a un evidente processo autoritario che riguarda tutta l’università, ma che nel Politecnico viene assumendo modi particolari. Rettore e vicerettori, senato accademico, consiglio di amministrazione, direttori di dipartimento esercitano in forme diversamente autocratiche i loro poteri. Si è formata una cerchia ristretta che ha nel dirigismo il suo modello e che ricorda la concentrazione e personalizzazione del potere, e il parallelo svuotamento degli organismi elettivi, che da tempo segnano il paese. Come nel paese, entrano nella cerchia del comando persone con storie di sinistra, che dell’esercizio delle scelte hanno costruito una visione tecnicistica.

Centro delle politiche di ateneo non è più il ruolo civile e culturale dell’istituzione, ma un’impostazione aziendale esplicitamente rivendicata. Si è inoltre rafforzata, più che in altri atenei, una struttura burocratica e di gestione di grandi dimensioni e poco controllata, subordinata alle autorità interne ma con gradi di autonomia. «Tecnocrazia e burocrazia si congiungono al di sopra della sfera tradizionale riservata alla politica»[1]. Nelle università è sempre stato assai debole il sistema della rappresentanza. È stato in parte sostituito da un’articolazione di poteri decentrati e di contropoteri: dai consigli di facoltà come strumenti di autogoverno, oggi aboliti[2], sino ai movimenti politici, all’associazionismo culturale, alla forza organizzata degli studenti. Essi hanno a lungo operato come una struttura di condizionamento e di controllo che è oggi quasi scomparsa.

Della tecnicizzazione riduttiva del Politecnico si possono portare molti esempi, tra i quali pesa la scelta, per ora contrastata da ricorsi legali, dell’inglese come lingua esclusiva cui nell’ateneo si sarebbe obbligati a ricorrere. Vengono portate tre giustificazioni principali. La prima è quella dell’adozione ormai corrente dell’inglese nei campi della tecnica e della scienza. La seconda quella del numero crescente di studenti e docenti stranieri. La terza quella dell’opportunità di adeguarsi a un costume per cui l’inglese sarebbe ormai lingua dominante anche nell’uso corrente. Non si tiene conto dell’approssimazione sia dell’inglese oggi conosciuto da professori e studenti, sia di quello che potrà essere conosciuto dopo un nuovo e generale processo di apprendimento. È l’approssimazione con cui sempre si parla, si legge e si scrive in una lingua diversa da quella materna. Non si tiene conto dell’importanza che in ogni università dovrebbe avere la scrittura, che richiede un diverso e più alto dominio; né si tiene conto del fatto che anche quella scientifica possiede la dignità e la nobiltà di ogni scrittura. Il fatto è che anche l’italiano è una lingua sempre meno controllata dalla massa degli studenti e da una parte non irrilevante dei professori, specie nella sua forma scritta. In una scuola seria, il primo processo di alfabetizzazione e acculturazione di massa dovrebbe riguardare la lingua italiana.

Ma non si tratta solo di questo. L’imposizione dell’inglese e l’abbandono dell’italiano è frutto di un’idea misera e strumentale del ruolo e del senso della lingua: come se essa dovesse servire a trasmettere contenuti e pensieri precostituiti, facendosene veicolo; come se rappresentasse una «scatola di attrezzi», anziché essere collegata in modo profondo a una cultura e a una forma di pensiero, dai quali non si può separare. L’idea della strumentalità della lingua va di pari passo con quella della strumentalità del sapere. È vero al contrario che il sapere comprende le abilità strumentali e dà loro un senso. Si dovrebbe ricostruire la presenza di una visione umanistica in ogni scuola tecnica; riconoscere in generale l’importanza della lingua; ribadire l’importanza del plurilinguismo; essere consapevoli della ricchezza e bellezza della lingua italiana, e del ruolo egemone che ha avuto storicamente e seguita ad avere in molti campi; promuovere la conoscenza dell’italiano tra gli studenti stranieri che non abbiano presenza solo occasionale; ricorrere all’inglese quando sia necessario per promuovere un sistema di scambi in campo tecnico e scientifico, o per comunicare con studenti e professori stranieri; fare in modo che negli atenei dell’inglese si abbia  una padronanza più alta e che lo si possa parlare e scrivere con maggiore dignità.

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[1] Norberto Bobbio, da un intervento del 4 ottobre 1969 a una tavola rotonda tenutasi alla Fondazione Cini di Venezia; riproposto al convegno del 21 gennaio 2014 al Convegno del Centro Gobetti di Torino; pubblicato sui quotidiani «La Stampa»  e «la Repubblica» del 20 gennaio 2014.

[2] Il «Consiglio di facoltà» era composto dai professori di una determinata facoltà, dai ricercatori, da rappresentanze del personale tecnico-amministrativo e degli studenti iscritti. È stato sostituito dai consigli di «corsi di studio» in cui ciascuna «scuola» è ora suddivisa, con compiti limitati alla gestione e all’organizzazione  didattica. Le scuole sono oggi prive di un organismo deliberante collettivo, mentre ai presidi sono state sottratti i poteri tradizionali, le possibilità d’azione, le disponibilità di fondi.