La competenza dell’adattamento al mondo tra ospite, habitus, landmark, set.

Ariela Rivetta

 

Seguendo la consuetudine per cui ArcDueCittà arricchisce ed orienta il proprio sguardo allo studio della città e dell’architettura attraverso i contributi ricevuti dai giovani lettori-interlocutori, queste righe propongono la nostra lettura delle risposte al call for papers per il numero attuale  con l’obiettivo di aprire un dibattito sui temi emersi e dare un orientamento al prossimo numero. Secondo una formula che, a partire da parole chiave, immagine ed estratti dei testi rimanda per alcune tematiche alla trattazione più approfondita.

Il luogo di tali approfondimenti all’interno delle pagine della rivista è determinato dall’assonanza dei contenuti con una delle quattro sezioni tematiche – Urban, Interior, Architectural, Virtual –, espressioni di momenti specifici della città che sin dalla prima uscita abbiamo declinato con i quattro termini ospite, habitus, landmark, set, a nostro avviso centrali per una riflessione sull’architettura dell’oggi. Linee editoriali rispetto all’attualità che di volta in volta si sono andate precisando anche nell’interazione con gli interventi pervenuti e che in questa fase di studio possiamo cogliere nelle righe dell’editoriale.

 

Ed è proprio nel proseguire lungo questa traccia che si vuole costruire l’intreccio dei diversi sguardi emersi. Per tornare sull’architettura come problema di “spaziatura” e temporalità in termini di misura e scala come strumenti propri della disciplina, nulla togliendo alle implicazioni di carattere sociale e politico che il progetto del presente richiede e le nostre parole chiave focalizzano. In questo senso è necessario richiamare l’editoriale quando si riferisce alla competenza di adattamento al mondo attraverso un progetto di architettura “che sa delle sue cose ed è sapere teorico” e non svolge un ruolo servile nei confronti di altre discipline od estetiche virtuosistiche.

 

Queste le premesse con cui richiamiamo i temi proposti per il call e ripercorriamo le risposte ricevute.

Il tema delle “resistenze e resilienze urbane” muove il proprio interesse attorno alle forme urbane capaci di resistere alle forze omologanti dell’urban profit e dell’urban no profit; “urban village” tocca il tasto del rapporto fra l’intero e le parti dapprima chiedendo di sviluppare il nesso con la storia come possibilità originale di indirizzare il sostenibile, non solo in direzione tecnologica, ed in seconda battuta intero e parti guardati nella contrapposizioni di due procedimenti progettuali, organico e cellulare. La riflessione sullo spazio pubblico pone l’accento sulla dialettica tra tessuto pianificato razional-moderno e tessuti urbani più densi e informali, preesistenti e successivi rimandando per altri versi all’urban village. Infine il tema della rappresentazione, oggi potenziata dal virtuale, per orientare la progettazione.

Ognuno degli argomenti proposti trova negli editoriali di sezione, a cui si rimanda, indispensabili precisazioni e sicuri punti di tangenza e sovrapposizione.

Come del resto le risposte al call, ricche ed interessanti, che restituiscono un quadro di riflessione articolato che ci rimanda alla situazione sul campo e sul quale si tenta di compiere uno sforzo di riflessione e di orientamento.

 

Partendo dal tema delle forme di resistenza/resilienza agli interessi economici e alle necessità della sopravvivenza sono diverse le sfumature che si colgono nei contributi: se da un lato vi è l’appropriazione e denuncia di spazi fisici ed abbandonati in termini radicali (Santangelo) che segnalano problematiche di carattere sociale e politico, dall’altro sono presenti argomenti più legati agli aspetti spaziali e di organizzazione urbana. Sono i casi dell’antico quartiere Cabanyal di Valencia (d’Armento) dove l’elemento di resistenza è una forma urbana “collaudata e funzionante” o della sopravvivenza di Christiania, stato autonomo situato nel cuore di Copenaghen, che, nonostante l’illegalità denunciata poiché reclamato dalla Danimarca come proprio territorio e immaginato come ambito di sviluppo urbano da cedere agli interessi del capitale, resiste, con una propria idea di sviluppo concentrata sul mantenimento della configurazione spaziale esistente e la previsione di rivitalizzare solo alcune aree pubbliche. Per rimanere in Europa.

Quando l’attenzione si sposta sui paesi emergenti e sulle dinamiche spaziali legate alla crescita esplosiva della popolazione che si concretizza nei cosiddetti insediamenti informali (Filippetti, Dal Villaggio alla città) viene evidenziato il fallimento di tutti i piani di risanamento proposti dall’alto, appiattiti sulla semplice contrapposizione ricchezza-povertà. Piuttosto si segnala la necessità di riconoscere valori ed identità intrinseche a tali realtà, in contrasto con la visione pessimistica di The Planet of Slums di Mike Davis, che a noi fanno ripensare al lavoro di Koolhaas a Lagos in Nigeria, Herzog e de Meuron (ETH Studio Basel) a Nairobi in Kenja, se non ai laboratori sperimentali a Caracas (Urban-Think Tank), Rio de Janeiro, Mumbai, Lima.

Come indicatori di una tendenza, la resistenza dei villaggi, anche in situazioni di grave insalubrità ed indigenza, rendono palesi alcune carenze della città profit sintetizzabili nella mancanza di uno spazio di vita intimo e domestico, alla piccola scala dove l’uomo è misura della progettazione e che Ciclostile Architettura (Beccari) propone di configurare sulla filosofia di Smallness antitetica a quella di Bigness, e la questione della partecipazione del cittadino a strategie di adattamento e riconversione degli spazi urbani anche teorizzata nei recenti studi di David Harvey ed emersa in più d’uno degli interventi pervenuti.

Nel richiamare il tema del villaggio, riletto da Michele Sbacchi come occasione e ricchezza per il progetto urbano contemporaneo quando costruisce le trame per una convivenza con maglie rigide e pianificate, la riflessione mette in luce la questione del rapporto tra il tutto e le parti.

Alla piccola scala sono interessanti le letture che declinano tale dialettica passando attraverso il tema dello spazio pubblico e del recupero, riadattamento dei vuoti urbani (Daidone, Giunta S.) con microinterventi e microazioni. O secondo una strutturazione più complessa come quella della Casbah (Selva) o quella basata su un approccio metabolico.

Alla scala urbana o macro l’interrogativo iniziale del call, modello organico o cellulare, offre diversi punti di lettura. Ancora in ambito di Urban Metabolism (Santamaria) viene proposto il tema della rete di città (modello desakota region in Asia) dove tipologie urbane e morfologie edilizie si integrano strategicamente alla scala del paesaggio e alle caratteristiche specifiche di ambienti fragili e sensibili. Secondo questa visione il sostenibile non si riduce solo all’aspetto tecnologico ma si configura come modo per tutelare situazioni di fragilità.

In tale contesto emerge, con altre peculiarità, il tema delle weak city, dove neoruralismo (Beatrici) e tecnologia di approvvigionamento energetico autosufficiente si configurano come proposte per difendere l’agricolo non edificato.

Nell’intreccio tracciato un tema ancora richiama la nostra attenzione segnando un punto di tangenza sia per gli editoriali di sezione, sia per le problematiche sollevate dal call, sia nei testi ricevuti.

Si tratta della riflessione sulla forma architettonica/urbana riproposta da più punti di vista nelle sue relazioni con svariati contesti – opera d’arte abitabile (Degli Esposti, Fraschini), mat-building (Licari), “pattern language” (Vercellotti), megaforma (Siahkali), architettura mutante ed in continua evoluzione (Furiassi, Ustable Tirana) – da riscattare dall’omologazione per restituirle narratività (Farina).

Torna il concetto di urban village, punto di arrivo del percorso sin qui delineato ed apertura verso la condizione attuale: gli approfondimenti pervenuti mostrano una evoluzione significativa dei concetti comparsi nelle teorie architettoniche del Team X degli anni 60-70, come innesto morfogenetico tra organizzazioni pianificate e formazioni spontanee che hanno dato origine alle ibridazioni di mat-building di smithsoniana ascendenza ed, oggi, a nuove sperimentazioni sulla forma architettonica.

In tale ambito si segnala il concetto di urban metabolism nell’accezione sviluppata da G. Santamaria e la peculiare idea di contesto per le megaforme di Raana Siahkali.
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